I
Eijiro Shimizu sentiva il terribile bisogno di grattarsi l’angolo dell’occhio. Era sempre così: più era concentrato e meno aveva la possibilità di muoversi incautamente, più i nervi lo tradivano. La guancia, la tempia, il naso, gli occhi… pareva che un esercito di formiche invisibili si divertissero a camminargli addosso quando aveva le mani occupate.
Lo strizzò, sperando di attenuare il prurito, ma non funzionò. Lo schermo a ingrandimento selettivo era ad un palmo dal suo volto, brillante di un blu che feriva la retina, e l’intrico di collegamenti neurali nella piastra che stava terminando pareva la trama di una foglia vista controluce. Avvicinò il micro-elettrosaldatore a un’interruzione tra due collegamenti e diede un colpetto con la punta, causando una scintilla che fuse le estremità delle due ramificazioni neurali della zona addetta alla memoria.
«Padrone.» lo chiamò una voce sintetizzata alle sue spalle.
«Zitta.» intimò senza muovere le labbra, temendo che una gocciolina di saliva cadesse a macchiare lo schermo.
Percorse con la punta una diramazione neurale, come la linea di una strada su di una mappa, grugnì soddisfatto e sollevò la testa con un gemito. Posò il micro elettro-saldatore sul ripiano di lavoro e si voltò verso il robot, in attesa alle sue spalle.
«Cosa c’è?»
«Padrone, ci sono due uomini alla porta. Dicono di avere un appuntamento. Nella mia agenda non è segnato. Volete che li mandi via?»
Eijiro si grattò il mento ispido di barba. Lavorava ininterrottamente da quattro giorni su quello schema neurale, mangiando a malapena e dormendo solo due ore ogni ventiquattro.
«Come dicono di chiamarsi?»
«Dicono di essere rappresentanti della Hardcom.»
«Ovvero, come la Softcom, di un sottogruppo della Triple W. Be', non ricordo alcun appuntamento, ma dato che ho finito posso vedere cosa vogliono. Poi mi servono doccia, cena e dormire per un po’. Preparami tutto dopo che li hai fatti accomodare.»
«Sì, padrone.»
Teta-4, che non era altro che un volto femminile perfettamente umano montato su di un robot modello scrab, voltò il busto di centottanta gradi e uscì dalla porta sulle quattro lunghe e arcuate gambe di metallo. Eijiro non aveva dato un nome né un aspetto umano a Teta-4 perché era solamente un robot domestico, ma aveva applicato un volto sul gruppo di sensori che aveva nella testa perché lo infastidiva la serie di led e laser che a intermittenza si accendevano e spostavano. Non si era preoccupato di dare anche una mobilità al volto; era solo una maschera e, dato che era femminile, quando ci parlava si riferiva alla macchina usando quel genere.
Due uomini, un nero e un orientale alti e distinti, in abiti grigi fatti su misura e data-cravatte lucide come scarpe di vernice, entrarono nel suo laboratorio. Indossavano entrambi occhiali di modello estremamente avanzato, costosi, e avevano volti neutrali perfettamente sbarbati.
Eijiro calcolò che con i soldi necessari ad acquistare un solo paio di quegli occhiali avrebbe potuto terminare il dispositivo ottico che, ormai da mesi, giaceva incompleto su di uno scaffale.
«Signori.» salutò, asciutto.
«Signor Shimizu!» salutarono in coro i due.
Si guardarono per un attimo attorno, forse cercando un posto dove sedersi, ma non ve n’era. Il laboratorio era un susseguirsi di ripiani di lavoro, macchinari, componenti meccanici e prototipi. Un’unica sedia a scorrimento magnetico era presente nella stanza, ed era occupata dallo scienziato.
Eijiro non li invitò ad accomodarsi né ordinò al robot domestico di procurare delle sedie.
«Desiderate?»
«Signor Shimizu…»
«Dottor Shimizu.» lo corresse lui.
«Be', dottor Shimizu…»
«Ma potete anche chiamarmi professore, se volete.»
Il nero esitò.
«Abbiamo sentito dire che state mettendo a punto un nuovo androide.» intervenne l’orientale.
Eijiro squadrò l’uomo, passando lentamente lo sguardo sulle scarpe mappali, la valigetta a disgregazione antifurto, la data-cravatta, gli occhiali multi-accessoriati.
«Avete sentito.» si limitò a commentare.
L’uomo sorrise, pensando forse di instaurare un rapporto di simpatia basato sul “sai com’è, è il nostro lavoro, non prendertela”, ma Eijiro rimase impassibile.
«A ogni modo, come rappresentanti della Hardcom saremmo interessati a vedere il suo lavoro.»
«Ma davvero. A che scopo, se è incompleto, mi chiedo io.»
«Potremmo verificare se è in linea con i progetti della nostra azienda e, se lo fosse, potremmo acquistare sin d’ora i brevetti.»
«Addirittura. In anticipo, senza nemmeno la garanzia di un lavoro terminato e correttamente funzionante. Tanta fiducia mi lusinga.»
I due uomini sorrisero, convinti di aver fatto breccia.
«Dottor…»
«Professor…»
«Ma,» li interruppe Eijiro, «non sono interessato. Grazie della visita.»
I due uomini esitarono.
«Dottor Eijiro, ma è proprio sicuro…»
«Professore, non sarebbe comunque l’inevitabile conseguenza del suo lavoro…»
I due si accavallarono parlando, sovrapponendosi e rendendo il tutto confuso e incomprensibile. Eijiro sospirò, spazientito.
«In quarant’anni, ho sviluppato centinaia di modelli di automi, alcuni dei quali sono diventati tra i più apprezzati e utilizzati al giorno d’oggi. Di questo siete consapevoli?»
«Certo!»
«Lo sappiamo!»
«Dell’androide domestico Teta-5 sono stati venduti trecentoquarantasettemila esemplari. Non fate quelle facce, lo so che non lo sapete. Ve lo dico io. Il prezzo individuale di ognuno di essi è di circa sessantaquattromila crediti, senza contare sconti, omaggi e promozioni. Ora vi chiedo,» disse facendo un ampio gesto attorno a sé, «questo vi sembra il laboratorio di un milionario?»
I volti dei due uomini si accesero di comprensione.
«Le assicuriamo che la nostra azienda…»
«La vostra azienda,» li fermò Eijiro a denti stretti, «ha assorbito la Western Hardware, che a sua volta era stata fondata dal consiglio di amministrazione della All Robotics, ovvero un frammento della mastodontica Hard&Soft che, se posso permettermi, ha un nome ambiguo. Tutte – e voi lo sapete, proprio tutte – le aziende che ho elencato altro non sono che ramificazioni della tentacolare Triple W. La stessa multinazionale, o forse dovrei chiamarla multiplanetaria, che ha acquisito dodici dei miei brevetti nel corso degli anni, brevetti che hanno garantito incassi per miliardi. La Triple W, ogni volta, ha schiacciato la mia persona e annullato i miei meriti con il suo esercito di avvocati, di clausole e postille contrattuali, di eccezioni legali e solo il demonio sa cos’altro. Quindi,» terminò schioccando le dita, al che Teta-4 apparve nella sala, «se non avete una valigetta piena di contanti, vi invito ad andarvene.»
«Prego, signori, da questa parte.» disse Teta-4 con il suo tono neutrale, indicando la porta.
I due uomini si guardarono per alcuni istanti, quindi si voltarono e uscirono impettiti.
Eijiro sospirò, lanciò un’ultima occhiata alla piastra neurale – grande appena come un francobollo – e si alzò faticosamente in piedi. La schiena gli doleva e lo costringeva a stare un po’ curvo in avanti, ma erano gli effetti collaterali del suo mestiere. Qualche seduta in una clinica e sarebbe stato come nuovo. Con i soldi promessigli per il nuovo robot, la qualità della sua vita sarebbe nettamente migliorata.
«Padrone, la cena è servita.»
Eijiro fece un gesto e Teta-4 si ritirò. Si assicurò che il blocco della porta d’ingresso fosse attivo, quindi entrò nell’appartamento vero e proprio, che in quel momento appariva come un cucinino vintage anni settanta, con i suoi assurdi angoli arrotondati e l’illuminazione a led azzurra. Sedette al minuscolo tavolo, dove una cena abbondantemente annaffiata di vitamine e integratori lo attendeva, opportunamente corretta con aromi che nascondessero il terribile sapore di quei medicinali a lui indispensabili per poter lavorare con i ritmi massacranti che si imponeva. Mangiò lentamente, la testa pesante, le membra come vuote, spossate, gli occhi in fiamme, il lumicino di un mal di testa che baluginava dietro la fronte, lungo il collo, nelle tempie.
Il suo contatto si sarebbe fatto vivo durante la notte, gli aveva fatto sapere. La Triple W lo teneva sotto controllo a causa del suo lavoro, e ricevere messaggi e persone di nascosto era oltremodo complesso. Per poter dialogare con il suo contatto, al servizio di qualche azienda avversaria del colosso multiplanetario, era stato costretto a ricorrere a un codice attraverso gli ordini ai corrieri per ricevere pezzi al laboratorio.
Non vedeva l’ora di incontrarlo. In parte perché gli aveva promesso pagamento anticipato, in contanti e congruo, in parte perché vendere un prodotto di simile qualità a un avversario della Triple W rappresentava per lui una soddisfacente vendetta.
Scostò il piatto, posò la testa sul tavolo e chiuse gli occhi, in attesa che medicinali e integratori facessero il loro effetto, che il contatto giungesse, che il suo lavoro fosse finalmente premiato come conveniva.
II
Cal era sveglio già da alcune ore quando gli strumenti segnalarono la presenza della Aefestus a portata delle manovre d’attracco. Aveva impostato la nave perché lo destasse quando fossero entrati nello spicchio di sistema contenente Saturno II.
L’immenso pianeta gassoso, così chiamato per la rassomiglianza di mole con Saturno e i numerosi anelli che lo circondavano, era ora tanto grande da riempire completamente la visuale concessa dall’oblò dell’astronave, una porzione di fusoliera appositamente resa trasparente per poter vedere l’esterno con gli occhi anziché con gli strumenti. La notevole forza di gravità che esercitava era segnalata sugli schermi, ma la nave aveva corretto la propria rotta in modo da assecondarla, entrando in orbita anziché contrastarla.
Cal controllò la velocità di crociera e la confrontò con quella della Aefestus, decisamente superiore alla loro. Il terminale di bordo gli comunicò che al contatto visivo con l’obbiettivo mancavano due ore, quarantacinque minuti e tre secondi. A quel punto, utilizzando la sequenza d’attracco standard, la nave si sarebbe avvicinata alla stazione orbitante e vi sarebbe attraccata.
C’erano, dunque. Cal aveva letto tutta la documentazione a sua disposizione innumerevoli volte, sia quella riguardante la missione che quella sui suoi uomini. Per avere le idee maggiormente chiare, aveva scaricato dal database della nave tutto ciò che era possibile sapere su Arcturus IV e sulla Aefestus, sperando che ciò fosse utile durante l’azione.
Il terminale si illuminò di verde e un contatore segnalò sessanta secondi al risveglio dell’equipaggio. Avrebbero avuto giusto il tempo di riprendersi dalla sospensione, prima di dover salire sulla stazione.
Le luci si accesero di colpo – sino a quel momento Cal si era mosso nel rosso riverbero di quelle di servizio – e un sibilo annunciò l’immissione di maggior ossigeno nelle maschere dei ventuno galeotti, accompagnato dall’energica vibrazione dei sedili che risvegliavano i muscoli e favorivano la circolazione del sangue. Una dose di adrenalina, mescolata a un cocktail energetico ricco di vitamine, zuccheri semplici e liquidi mineralizzati, venne iniettata nei corpi.
Mentre i primi colpi di tosse segnalavano il risveglio dell’equipaggio, Cal si diede una spinta coi piedi contro la paratia e fluttuò agilmente verso un pannello di comandi, dove azionò la rotazione della nave perché la gravità passasse da nulla a 0,5 G, ovvero la metà di quella terrestre.
«Ehi comandante!» esclamò una voce alle sue spalle, «siamo arrivati?»
Cal si voltò verso un sudamericano dal cranio rasato, due croci celtiche tatuate sulle tempie. Aveva gli occhi iniettati di sangue e un colorito grigiastro, ma sorrideva spavaldo e non pareva affatto intimorito né disorientato.
«Il tuo codice, soldato?»
«Red Two.»
«Siamo a poco meno di tre ore dal contatto visivo con la Aefestus.»
Red Two sorrise.
«Quasi nella bocca del leone.»
Cal non replicò, scorrendo con lo sguardo il suo stravagante equipaggio. Neri, orientali, bianchi… ce n’era per tutti i gusti. La maggior parte di loro non aveva alcun innesto, perlomeno visibile, forse con l’idea di non dare troppo nell’occhio. In un mondo di individui modificati, avere tratti eccessivamente normali attirava invece l’attenzione, a suo parere, ma si tenne il commento per sé. Vide Grey Five che cadeva in ginocchio nello scendere dal sedile, tossendo ossigeno liquido, il corpo scosso dai tremiti. Avrebbe avuto problemi, lo sapeva già da quando aveva fatto notare la cosa al generale, ma sperava non tali da mettere a rischio la missione.
Si morse il labbro inferiore, inconsciamente, e notò che tranne Grey Five nessuno degli altri aveva vomitato o aveva avuto svenimenti. Non avevano un bell’aspetto, dopo la sospensione, ma erano comunque dei veri duri.
«Bene, uomini,» esordì, «manca poco perché entriamo in vista del nostro obbiettivo. Prima di allora, tutti voi dovrete aver indossato la vostra tuta, è categorico. Non sappiamo in quale stato sia la Aefestus, ma dobbiamo per forza presumere il peggio per essere preparati a ciò che ci potrebbe attendere. Per quel che ne sappiamo noi, dato che non abbiamo più avuto risposta dall’equipaggio, potrebbe non esserci più un briciolo d’ossigeno a bordo, potrebbero esserci degli incendi o delle falle, una breccia tale da essere al di fuori delle capacità autonome della stazione. Il che significherebbe atmosfera inesistente, niente pressione né gravità, tutti morti. La tuta è il vostro miglior amico, fintanto che saremo sulla Aefestus. Chiaro?»
Ci fu un coro di risposte affermative. Per la prima volta da quando avevano lasciato le loro celle, i galeotti erano veramente attenti.
«Come vi ha già detto il generale, la tuta non è solo la vostra unica speranza di sopravvivere alle condizioni avverse, ma è anche un’arma. Usatela con criterio, soprattutto i primi momenti che la indosserete, perché non avete ancora la percezione delle sue effettive possibilità e potreste causare danni irreparabili senza volere. Tra quattro ore il vostro corpo si sarà sufficientemente ripreso per affrontare un pasto come si deve, ma per quel momento saremo di nuovo qua. La prima uscita esplorativa non deve durare più di mezz’ora. Il suo scopo sarà più che altro farvi abituare alla tuta.»
Cal si grattò il mento. La barba gli stava crescendo, facendogli prudere la pelle. Odiava non essere sbarbato, ma in quel momento le priorità erano altre. Inoltre, era da tempo che non si sentiva così sicuro di sé. Gli psicologi si sarebbero ben stupiti nel constatare che la cura migliore per il suo stress fosse trovarsi nuovamente sul campo.
Il timer segnalava oramai un’ora e cinquantaquattro minuti al contatto visivo.
«Molto bene. Adesso indossate le tute, vi farò vedere come fare ad attivare le scarpe magnetiche, dove si trovano gli indicatori dell’ossigeno e termico e così via. Forza.»
Meno di due ore dopo, il terminale lampeggiò di azzurro e a un comando di Cal gran parte della fusoliera nella direzione opposta al loro moto divenne trasparente. La superficie striata di Saturno II, con i suoi colori ocra e giallo, terra di Siena e grigio, apparve nei tre quarti di visuale alla loro destra. Numerose spirali ne punteggiavano la superficie, così grandi da essere visibili a occhio nudo da lì, ma nonostante la grande velocità a cui si muovevano dal loro punto di vista, in orbita a migliaia di chilometri orari, parevano immobili. Nella porzione sinistra uno spicchio di spazio nero, di un colore e una consistenza che poteva solo far pensare al nulla, si riempì con discreta rapidità del corpo opaco della Aefestus.
La stazione orbitante era un poliedro, il cui corpo non riempiva l’area né il volume dello stesso, ma era costituito da un alto numero di sezioni cilindriche che collegavano gli angoli gli uni agli altri, formando i lati delle facce e allargandosi in sfere laddove si intersecavano tra di loro. L’intera superficie era coperta da una miriade di antenne, portelli, fari, ma tutto appariva buio ai loro occhi, mentre avrebbe dovuto essere luminosa come un albero di natale.
«Non c’è energia. Brutto segno.»
«Non potrebbero essere semplicemente spente le luci?» chiese uno dei galeotti, un uomo dai tratti mediorientali e una barba appuntita.
«Se a bordo ci fosse qualcuno di vivo, sarebbe completamente al buio. I casi sono due: o l’energia manca, e allora sono tutti morti, o i generatori sono spenti o le loro connessioni scollegate, il che porta comunque l’equipaggio a essere morto.»
«Che prospettiva rassicurante.»
«Se sono tutti morti, potremo perlomeno tornare a casa.» disse speranzoso uno.
«Non ci contare,» commentò Cal, «perché è probabile che da terra ci chiederanno, a questo punto, di scendere sulla luna a vedere cosa sia successo alla base scientifica.»
«Magnifico.»
«Cosa saremmo venuti a fare, sennò?»
«Non avremmo dovuto solo vedere cos’era successo e comunicarlo?»
«E voi pensate davvero che la Triple W spenderebbe milioni per mandare ventidue uomini nello spazio con una navetta d’ultima generazione così, solo per sentirsi dire: “niente, sono tutti morti”? Probabilmente ci saranno dei file da recuperare, qualcosa.»
«Già, ha senso…»
«Siamo qua, quindi facciamo quel che dobbiamo fare e torniamo col culo al caldo. Non vedo l’ora di riabbracciare la mia cella.»
«Con tutti gli ergastoli che ti hanno dato, dovresti riportare la Aefestus sulla Terra trainandola con i denti, per avere uno sconto della pena.»
«Ah! Molto divertente!»
Cal inserì la sequenza di attracco automatico e il terminale lampeggiò di rosso.
«Come temevo.»
«Cosa succede, comandante?»
«Dato che la stazione è senza energia, non c’è alcun radiofaro con cui la nostra nave possa interfacciarsi. Sarò costretto ad attraccare manualmente.»
«Ed è pericoloso?»
«Questa nave non l’ho mai pilotata, ma ho una certa esperienza di volo spaziale. Non dovremmo avere problemi.»
Sedette al posto di guida e si allacciò la cintura a x.
«Sedete e legatevi. Non garantisco che sarà una cosa piacevole.»
Mise le mani sul pannello luminoso, in corrispondenza di due cerchi pulsanti.
«Attivare controllo manuale.»
Il terminale lampeggiò di giallo e la nave sussultò, mentre virava da robo a bio e Cal ne prendeva il controllo.
La nave e l’equipaggio attorno a lui sparirono. Tutto divenne nero e Saturno II apparve alla sua destra, mentre il reattore laterale si attivava e lo spingeva fuori dall’orbita, verso il punto di contatto con la Aefestus. La stazione, vista da quella prospettiva, si avvicinava a velocità terribile.
Ora che era in contatto col bio-terminale, lui era la nave. Il suo corpo non era più carne, ma gelido metallo. Le sue proporzioni erano cambiate, la sua mole ingigantita, la sua potenza sterminata.
Manovrò in modo da trovarsi appena a lato dell’orbita della Aefestus, impiegando non poca energia per mantenersi immobile mentre la stazione si avvicinava rapidamente. Non appena fu a qualche secondo di distanza dal contatto Cal accelerò, affiancandola e assecondandone la traiettoria; non appena la velocità della nave fu eguale a quella dell’obbiettivo, aggiunse potenza ai reattori laterali e cominciò ad avvicinarsi. Uno dei radiofari, un globo del medesimo colore della fusoliera della stazione, era lì, davanti a lui. Sarebbe stato impossibile riconoscerlo senza sapere in anticipo di cosa si fosse trattato. Un portello ovale si trovava appena al di sotto del livello del radiofaro spento, circondato da un cilindro cavo costituito di anelli magnetici scollegati tra loro. Senza energia, questi ultimi non avrebbero potuto bloccare la nave in posizione d’attracco, quindi Cal si trovò costretto, mentre oramai la Aefestus riempiva per intero la sua visuale, a poggiarsi contro la parte inferiore – almeno dal suo punto di vista – dello scafo dove, simili a zampe di ragno, otto braccia meccaniche articolate erano in attesa. Si trattava del sistema di attracco manuale, ma aveva un difetto: andava appunto attivato a mano.
Cal passò da bio a robo, stringendo i denti mentre la sensazione di precipitare gli faceva sobbalzare le membra. Il terminale riapparve davanti a lui e mantenne saldamente la posizione in cui era rimasto, ma una serie di spie si attivarono immediatamente, lampeggiando vistosamente.
«Comandante! Che succede?»
«Il sistema d’attracco è spento. Bisogna usare quello manuale, ma io non posso allontanarmi dal terminale. Vedete queste spie? Segnalano un’interferenza tra il moto della Aefestus e l’attrazione gravitazionale del pianeta. La nave deve contrastare questa forza, eguagliare la velocità della stazione e la sua traiettoria in tre dimensioni. Semplicemente, da un momento all’altro potremmo sbandare contro la fusoliera e venire disintegrati.»
«Cosa si può fare?»
«Io non posso allontanarmi da qua. Se il terminale avesse dei problemi, devo riuscire a compensarli in tempo reale. Uno di voi deve uscire.»
Calò il silenzio. I galeotti si guardarono l’un l’altro, increduli, e alcuni si allontanarono di un passo dal comandante, che voltava loro la schiena.
«Allora, siete tutti diventati muti? Siete o non siete i più pericolosi esseri umani della Terra? Dove cazzo è finito il vostro “duro e cattivo”, eh?»
«Andrò io.» disse Grey Five facendo un passo avanti.
Ci furono alcuni commenti e un paio di risolini. Cal guardò Grey Five per un istante, con la tuta già indosso, e annuì.
«Bene. Ti guiderò via radio. Vai alla camera di gravità.»