Questo è un post pesante.
Dico sul serio, fate attenzione prima di imbattervi nella lettura. E' molto lungo, sebbene scorra senza problemi, ma soprattutto tratta tematiche di cui non si sente parlare spesso in giro, perlomeno non in questi termini.
Non è un invito né una reclame, ma solo un racconto e come tale va trattato. Il fatto che possa essere attinente o meno alla realtà conta davvero poco, perché tanto nessuno di noi può elaborare un concetto di realtà molto diverso da quella brodaglia di informazioni filtrate da sensi, cultura, contesto sociale, mode, insicurezze, valori, principi...
E' un post a cui tengo particolarmente perché non ha nessuna velleità letteraria. Lo pubblicai qualche tempo fa sul mio blog personale, salvo poi eliminarlo dopo poche settimane. E' stato scritto di getto, a parte il doveroso lavoro di 'postproduzione' per affinare forma, stile e registro, in modo da offrire un'esperienza di lettura piacevole a prescindere dal mio punto di vista, quello sì, opinabile.
Alla ricerca della coscienza perduta
Ho perso un'occasione. E fin qui nulla di nuovo. Sarei dovuto andare a vedere un concerto di un'artista newyorkese emergente, una ragazza incontrata qualche giorno prima a un festival di musica elettronica...
Rewind
Hannah si esibisce su un palchetto secondario. Sì e no, siamo in 30 ad ascoltarla. Alcune basi preparate meticolosamente a casa, un misto tra rock ed elettronica dal sapore decisamente moderno, una voce delicata, spalmata su quel beat accattivante e tanti piccoli suoni nel mezzo scanditi da precisi movimenti del corpo.
Non una danza, ma una vera e propria performance fatta di suono e movimento, in cui il vero effetto speciale era la commistione delle singole parti. A fine concerto mi avvicino per scambiarci qualche parola, catturato tanto dalla musica quanto dal fatto che, porca miseria, ce l'aveva fatta.
Era riuscita ad esprimersi nel modo a lei più congeniale, aveva trasmesso qualcosa a chi, come me, non si è mai lasciato travolgere da uno stile simile. Fresca, originale, con un'idea precisa di suono da dare in pasto al pubblico, una direzione. Tutte cose che ho cercato invano di trovare nel mio percorso artistico da musicista, mai realmente sbocciato.
"Ho apprezzato tanto la tua esibizione – le dico – sono rimasto incantato dalla maniacalità con cui hai curato ogni singolo frammento di canzone. Nulla era lasciato al caso ma tutto è sembrato così naturale. E non importa il fatto che io in questo momento sia più sensibile perché mi son preso una pasticca, anzi forse proprio per questo sono riuscito a lasciarmi trasportare più facilmente da qualcosa che non è propriamente il mio genere."
Le chiedo un contatto: vorrei rivederla, parlarci un pochino e capire come cazzo fa. Come riesce a esprimere se stessa senza quei vincoli psicologici che mi hanno sempre portato ad accantonare ogni bozza di canzone scritta. Vorrei capire lei e attraverso la sua esperienza capire qualcosa in più di me stesso.
Altre due battute, qualche sorriso mentre ritira la sua strumentazione e un arrivederci a presto, mentre se ne va a ballare un po' di elettronica nell'altro palco assieme a due amici. Io rimango lì, piacevolmente sorpreso dall'accaduto in attesa del prossimo artista.
EVJ
L'effetto della metanfetamina è calato notevolmente, prendo un'altra mezza e aspetto che EVJ, questo il suo nome d'arte, disponga la sua strumentazione e dia inizio alle danze. Ci vorrà una mezz'oretta buona prima che faccia effetto, nel mentre comincia il concerto.
Tratti somatici asiatici, inglese perfetto. Scopro soltanto dopo che viene dalla Nuova Zelanda e si trova a Berlino da circa due mesi, in cerca di fortuna. Il beat è incalzante, le sue rime scorrono veloci e taglienti. Mi fermo ad ascoltare le parole: non sono le solite banalità da rapper cresciuto nella strada e vengo catturato dal suo modo di giocare coi concetti.
Mi ricorda il buon Frankie Hi-Nrg, probabilmente l'unico artista rap per cui nutro tutt'ora una buona stima, sicuramente l'unico che ho ascoltato con piacere nel corso della mia breve esistenza. Nella sua musica non ci sono soltanto battiti e parole, c'è un sottotesto che mi risulta particolarmente familiare, una volontà palese di prendersi poco sul serio, di prendere la vita stessa poco seriamente.
Il suo viso è una maschera di gomma, la modella a seconda delle esigenze pur rimanendo intimamente sincero col suo modo di vedere le cose. L'irriverenza fa parte del personaggio, di quel bad boy che probabilmente non è mai stato e che prova in tutti i modi a schernire, parte dell'immaginario comune dei più accaniti appassionati di hip-hop.
Un tizio mezzo ubriaco con una maglietta rossa sale sul palco nel mezzo di una canzone, scimmiottando gesti e movenze da rapper sgangherato. EVJ coglie la palla al balzo, non lo scaccia via ma ci gioca. Tutto sembra fatto apposta anche se è solo grazie alla sua sensibilità che riesce a trasformare un fuori programma in qualcosa di assolutamente naturale. "Give it up for the man with the red shirt!" urla al microfono, e tutti "Yeahhhh!"
The man with the red shirt diventa protagonista a sua insaputa, rimane sul palco e continua il suo show personale senza intaccare minimamente lo spettacolo. Diventa una sorta di mascotte, tanto da far sorger il dubbio, al pubblico arrivato con un pizzico di ritardo, che sia tutto organizzato ad hoc.
Il modo di ballare hip-hop della gente che sta dall'altra parte del palco è simile a una danza tribale: la testa ondeggia lentamente a ritmo di musica mentre i piedi, nemmeno fossero rivestiti da stivali di piombo, si alternano in modo cadenzato, assecondati da una postura quasi scimmiesca.
Control
EVJ sa che col suo carisma potrebbe far muovere i loro culi schioccando semplicemente le dita, ma lungi dal suo modo di vedere le cose chidere direttamente al pubblico di seguire il tempo con più energia. Prima esorta tutti ad avvicinarsi al palco, poi nel bel mezzo di una canzone scende tra i comuni mortali e si mette a ballare col microfono in mano. Tutti lo seguono, non potrebbero fare altrimenti. E' un modo sottile per coinvolgere la gente, un dettaglio sul quale ho lavorato per anni nel corso dei miei concerti. Mai chiedere qualcosa al pubblico, ma guidarlo consapevolmente in una direzione.
Ciò che mi colpisce maggiormente nella sua esibizione è appunto il controllo. EVJ sa perfettamente cosa fare e quando farlo e non solo per queste stronzate che ho appena scritto. Le sue canzoni sono piene zeppe di errori controllati. La base ogni tanto si inceppa, come un vinile graffiato sul giradischi, ma nulla è lasciato al caso e lui sfrutta questi bug stravolgendo la ritmica e riprendendo a cantare proprio nel momento esatto in cui il beat torna normale, creando un effetto particolarmente gradevole. E ancora, studio, meticolosità...Un caos ordinato che sgorga naturalmente da quelle casse, ma soprattutto un suono.
Il mito del suono è un concetto che tanti musicisti faticano a far proprio. Specialmente nell'era dei talent show, si da più importanza alla singolarità che all'ensamble. La gente si convince di aver talento perché ha una buona dimestichezza con uno strumento, perché riesce a raggiungere delle note alte o per via di un timbro vocale più unico che raro.
Cazzate. Il vero talento è avere ben chiara in testa l'idea di suono che si vuol trasmettere. Prendete i Pink Floyd: David Gilmour? Nulla da dire come chitarrista, oltre a essere un cantante niente male. Roger Waters? Ottimo compositore, gran gusto per le linee di basso, anch'egli discreto nel cantare. Ciò che però salta all'orecchio quando si ascolta un loro disco è proprio il suono, quell'inconfondibile alchimia che consente di apporre una firma su ogni canzone pur senza scriverla in calce da qualche parte.
Gens strana in corpore sano
La modernità privilegia talenti sterili, marionette prone con un buon potenziale ma senza purtroppo una visione più ampia di ciò che deve essere la musica. Tutte caratteristiche funzionali all'industria musicale che fagocita vittime inconsapevoli, regalando loro l'illusione di poter essere qualcosa che non saranno mai: degli artisti. E' stata proprio questa la sensazione che ho avuto, due anni orsono, al termine del concerto di uno dei tanti sbarbati saliti alle luci della ribalta, al secolo George Hezra.
Canzonette orecchiabili, una voce che riecheggia Tom Waits, Kelly Jones e qualche altro cantante con le palle, un visino che stuzzica le fantasie delle teenagers. I pezzi registrati sul disco suonano discretamente, io e la mia ragazza cogliamo l'occasione per buttare 'sti venti euro e vedere come se la cava dal vivo. Risultato? Una merda.
Il palco è solo per lui, illuminato da un riflettore fin troppo abbagliante, mentre gli altri componenti della band (quale band?) si muovono come ombre accompagnando le canzonette con linee semplici e scarne. George è quasi impacciato, ma i produttori l'hanno educato a dovere e gli hanno insegnato qualche movimento di anca alla Elvis, che lui mette puntualmente in atto per la gioia delle ragazzine assiepate in prima fila, ululanti all'unisono al suo ondeggiare artefatto.
George è a modo suo innocente, è un personaggio costruito, un ragazzo che probabilmente aveva del talento ma che avrebbe avuto bisogno di più tempo per prenderne coscienza. EVJ invece non è nessuno. Eppure si muove con la consapevolezza di chi sa esattamente quel che sta facendo, fregandosene di piacere a tutti i costi. Lui è il carnefice, l'incantatore di serpenti, il burattinaio. E il pubblico è il suo pasto quotidiano. Ci gioca, lo ammalia e regala a tutti una sensazione di pienezza, cosa che al buon George non riuscirà mai. Perhaps.
Coming down or going up?
Non appena l'ultima nota dell'ultima canzone viene pompata fuori dagli amplificatori, EVJ ritorna ad essere quello che è nella vita di tutti i giorni. Scambia due parole con chi gli fa i complimenti, mi chiede un filtro per una sigaretta (nel corso dello show mi aveva addirittura chiesto di fargliene una) e ritira le sue cose. Gli faccio i complimenti più sinceri che potessi fargli: "Non ascolto hip-hop, ma hai fatto un concerto talmente figo che mi hai tenuto incollato per oltre un'ora, complimenti!" Lui sorride, accetta di buon grado le lusinghe e ci scambiamo i contatti.
L'effetto della metanfetamina si fa sentire, voglio parlare con chiunque, mi sento libero da ogni vincolo sociale che in condizioni normali frenerebbe la mia curiosità di chiedere a tutti "ma tu che scusa hai?". Vago per i palchi assieme a un'amica senza una meta ben precisa. Scambio due chiacchiere con due diciottenni fatti, poi con altre tre diciottenni altrettanto fatte, di cui una completamente esausta dopo aver ballato per cinque ore di fila a ritmo di tecno. Mi risponde con un laconico: "Preferisco ascoltare, ora non mi va di parlare, tu racconta..."
Non passa molto tempo prima che mi imbatta di nuovo in Elvin, questo è il suo nome vero. E' seduto da solo su un divanetto, a pochi passi dal palco dove si esibisce l'ennesimo DJ di musica elettronica. Non ci sono freni inibitori, vado subito al sodo e gli chiedo "Come cazzo fai amico? Sono anni che provo a dire qualcosa con la musica, ma ciò che mi è riuscito meglio fino ad ora è stato arrangiare le canzoni degli altri. Sono sempre insoddisfatto del risultato, sono il giudice di me stesso più severo che si possa immaginare. Come fai a fottertene, mettere nero su bianco, metterci la faccia e andare avanti?"
Elvin è tutt'altro che un tipo loquace e brillante come appare sul palco. E' fatto almeno quanto me, è serafico, ascolta con attenzione e prova a dare un punto di vista sensato a ciò che gli viene chiesto. Inutile dire che la mia amica, lucida come un pavimento di marmo dopo tre passate di cera, va alla ricerca di qualcosa di più interessante che due depressi complessati come noi.
Parliamo per un'ora o forse tre, ma che importa. La discussione scivola via come se ci conoscessimo da tempo, accomunati da un disgusto sul modo in cui è strutturata la società senza precedenti. E' incredibile come a soli 22 anni Elvin abbia già raggiunto un grado di consapevolezza di sé stesso, e del mondo che lo circonda, così profondo. Non è un caso infatti che riesca a essere un artista nel vero senso della parola.
My only friend...
Non mi va di riportare per filo e per segno i contenuti della chiacchierata, ma posso dirvi che Elvin è una persona fantastica. "Io non sono un essere competitivo, quando c'è da fare a gara per qualcosa me ne sto in disparte, preferisco condividere." Mi trova d'accordo. Siamo abituati sin da piccoli a mettere paletti e provare ad essere migliori del nostro vicino di casa o del nostro compagno di banco. Ci misuriamo il cazzo da quando questo ha ancora le sembianze di una larva e continuiamo a farlo vita natural durante.
La competizione ci viene sbandierata come la chiave per superare i nostri limiti, per dare il massimo e forse questo può essere vero per qualcuno. Ma è la condivisione a essere l'unica via per la conoscenza. La competizione, come estrema ratio, porta gli individui a sputarsi addosso ciò che in realtà già sanno, con più o meno veemenza a seconda della loro indole, talvolta mentendo spudoratamente pur di avere la meglio. Col risultato di bearsi del consenso di chi non ha gli strumenti per prender parte alla conversazione, senza accrescere minimamente il proprio bagaglio culturale. A molti questo basta per andare avanti e probabilmente anche io, in diverse occasioni, sono cascato in questo girone infernale.
La società moderna è il trionfo dell'individualismo, l'elogio della singolarità a scapito della moltitudine. Ma per fare il mare non ci vuole una molecola d'acqua gigantesca, bensì tante piccole molecole connesse l'una con l'altra. La sensazione che si prova sotto metanfetamina è un senso di partecipazione al quale siamo profondamente estranei.
L'impulso che ti guida in ogni singola scelta non mira alla sopraffazione di questo o di quello, ma alla volontà di dare un contributo a quell'essere collettivo di cui tutti facciamo parte. Come se attraverso le nostre piccole esperienze, i nostri piccoli traguardi e le nostre illuminazioni fossimo in grado di far muovere un altro passo in avanti a questo pachiderma costituito da tante minuscole gocce di coscienza.
Ah si, dicevo all'inizio, ieri ho perso un'occasione. Sarei dovuto andare al concerto di Hannah, la ragazza di New York, ma non ho trovato nessuno che volesse venire con me. Sarei potuto andare da solo, ma sarebbe stato difficile non apparire il classico disperato che si invaghisce della cantante, che prova a scambiarci qualche parola a fine concerto e spera in cuor suo di far colpo e rimediare una scopata.
Tutto ciò sarebbe stato molto più semplice e forse lo era per davvero, ma a distanza di qualche giorno dalla mia ennesima esperienza positiva con le metanfetamine è stato più difficile del previsto. Mi sarebbe dispiaciuto enormemente bruciarmi l'occasione passando per essere uno dei tanti coglioni che va dietro a un pelo di figa, quindi ho rinunciato.
Ci saranno altre occasioni, forse, chi lo sa. Ma non smetterò mai di ricercare persone che possano, in un modo o nell'altro, condividere un pezzetto di esistenza con me per crescere insieme. Attraverso una canzone, due parole o un semplice sorriso.
Se volete leggere la mia entry al contest di @heidi71 #fotostoria CLICCATE QUI
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Infine non perdetevi la riflessione Non è un social per vecchi
Post molto intrigante.. la frase che preferisco è questa:
Perchè mi trova d'accordo al 200%
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Ci ho messo giusto quei 25/30 anni a capirlo ;)
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Ti ho dedicato 10 minuti, e ne è valsa la pena.
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Apprezzo =) In genere sono ben cosciente che dopo i primi 3 minuti l'attenzione del lettore medio possa subire un calo e ho pensato anche di dividerlo in due parti. Ma poi la filosofia dello sticazzismo mi ha fatto pensare di impacchettare tutto in uno ;)
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hai fatto bene se lo dividevi si perdeva la tensione.
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Esatto, la mia paura però era quella di perdere il lettore all'inizio del terzo paragrafo =)
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Hi! I am a robot. I just upvoted you! I found similar content that readers might be interested in:
https://spaghettiacolazione.wordpress.com/2016/09/08/alla-ricerca-della-coscienza-perduta-part-1/
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Thanks for sharing my blog then, despite the fact is offline ;)
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