14. La tomba di Galabel (parte seconda)steemCreated with Sketch.

in ita •  5 years ago  (edited)

La statua misurava poco più di un metro di altezza.

Era rivolta a occidente, dove migliaia di anni prima erano state avvistate le prime navi provenienti dal perduto Regno dell'Ovest, cariche di uomini altissimi e di una bellezza ultraterrena, latori di conoscenze che ne avevano fatto quasi delle divinità agli occhi delle tribù che abitavano lungo le coste.
Allora si era detto che i Tempi Antichi erano conclusi, e una nuova civiltà avrebbe portato pace e prosperità eterne.

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(Foto di Brigitte Werner da Pixabay)

Guerre e cataclismi, tuttavia, avevano continuato a imperversare fino a estinguere molte delle razze che popolavano il mondo, relegandole ai libri di storia o ai versi dei cantori.
Prima che i loro ultimi discendenti rivendicassero il trono, anche gli Uomini dell'Ovest erano finiti col diventare poco più che una leggenda, ritirandosi a vivere in miseria e clandestinità; in quello stesso periodo, a occidente, le prime navi del popolo degli Elfi erano state viste scomparire all'orizzonte, destinate a non fare più ritorno nel mondo dei mortali, divenuto ormai troppo brutale e corrotto per i cuori di coloro che per primi vi avevano introdotto la gioia, l'arte e la bellezza.
Allora si era detto che gli Anni Oscuri erano cominciati, e che il sangue avrebbe ricominciato a scorrere.

L'ultima grande guerra aveva inghiottito ciò che restava di quel mondo magico: mostri, folletti, stregoni ed eroi erano tornati brevemente alla luce solo per trovare la morte su questo o quel campo di battaglia.
I pochissimi superstiti se n'erano andati per sempre a bordo di leggiadre barche a vela, suscitando disaccordi tra coloro che erano stati incaricati di narrarne le gesta ai posteri. Vi era chi sosteneva che il loro spirito d'avventura li avesse condotti a sud, alla ricerca della mitica Terra d'Ombra, mentre la più pessimista delle versioni li voleva così sconvolti e inorriditi dalla guerra da cercare la morte per inedia, dopo essersi spinti così al largo da non poter fare più ritorno in alcun luogo ospitale.
Secondo altre fonti, invece, essi erano diventati così saggi e potenti che il mondo non avrebbe più potuto sopportarli, mentre le Terre Immortali avrebbero finalmente potuto accoglierli, perciò il Padre degli Dei aveva svelato loro la medesima rotta invisibile che aveva portato via gli Elfi.

Allora si era detto che il Tempo degli Uomini era giunto, e nulla sarebbe stato più come prima.

Nel Tempo degli Uomini, delle antiche dimore elfiche non rimanevano che poche rovine lontane dalle vie trafficate, mezze sepolte da nuovi strati di vegetazione. Per coloro che vi si imbattevano, era davvero arduo immaginarvi terrazze in fiore e fucine d'oro e gioielli, alberi carichi di frutti grossi come pugni che sprizzavano succo al solo sfiorarli, e migliaia di creature immortali e perfette intente a sfoggiare le vesti più pregiate e comporre le più raffinate melodie. Molti ne tornavano convinti che quella degli Elfi fosse solo una leggenda, o quantomeno un'esagerazione della storia.

Galabel, curiosamente, aveva scelto uno di quei luoghi dimenticati per consumare la sua esistenza.

La statua era stata commissionata da Ingolf, nel disperato tentativo di arrecare conforto alla sua unica figlia.
Aveva creduto che ella non avrebbe mai più sofferto come quando aveva appreso che la vecchiaia aveva spento la sua adorata nonna; ma si era sbagliato.
Quando aveva realizzato che il corpo di Galabel era stato avvolto in un lenzuolo e gettato sul fondo del mare, la piccola Ilharess era letteralmente impazzita. Aveva pianto per giorni producendosi in urla strazianti, si era rifiutata di mangiare e dormire, aveva stritolato calici di cristallo e preso a pugni le pareti della sua stanza fino a ridursi le manine a due palle violacee e sanguinolente. Il grazioso visetto dagli occhi blu si era tramutato in una smorfia oscena. Aveva odiato e maledetto lui e sua moglie per aver "rubato la nonna", e gli aveva spezzato il cuore in un modo che il più crudele degli adulti non sarebbe stato nemmeno in grado di concepire.
Avrebbe voluto il corpo della nonna accanto a sé pur sapendola morta, tanto era l'amore che le legava, e non riusciva a sopportare l'idea di essersene separata per sempre. Sarebbe stata disposta a venerare una poltiglia informe e putrefatta pur di avere ancora una nonna da stringere.
Così Ingolf era sceso dal suo veliero e aveva percorso in lungo e in largo la terraferma, fino a giungere alla porta di un famoso scultore; l'aveva letteralmente coperto d'oro e si era prostrato ai suoi piedi con le lacrime agli occhi, poi l'aveva trascinato fino a Porto dei Cigni e gli aveva fatto promettere alla sua bambina che presto avrebbe avuto nuovamente un volto da accarezzare.

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(Foto di Stefan Keller da Pixabay)

Ilharess si era immediatamente tranquillizzata.

Lo scultore aveva riprodotto fedelmente il volto di Calíma, la sua bellissima moglie, pressoché identico a quello della defunta; al posto delle orecchie e del cranio aveva modellato l'immancabile cuffia che né madre, né figlia si azzardavano mai a togliere, infine aveva incastonato nel petto della statua il ciondolo che era appartenuto a Galabel, una pietra levigata color azzurro pallido, delle dimensioni di un'albicocca.
Quando Ilharess era stata condotta per la prima volta al cospetto della scultura, Ingolf aveva trattenuto il fiato, lui che aveva riso in faccia a orde di pirati e sfidato le più micidiali tempeste, ridotto alla totale impotenza dal più innocuo degli scriccioli.
Ilharess aveva sfiorato la gemma azzurra con la manina fasciata, poi aveva sorriso appena appena.
«Staremo insieme per sempre», aveva annunciato.
Allora Ingolf si era sentito morire d'amore.

«A cosa pensi, babbo?»

Il vecchio lupo di mare riemerse dai suoi ricordi e guardò ciò che sua figlia era diventata.

Con gli anni le sue mani erano tornate perfettamente lisce e proporzionate; nemmeno l'ombra di una cicatrice. Essere figlia di una guaritrice aveva i suoi indubbi vantaggi, pensò.
Non era cresciuta troppo in altezza, e le sue forme erano ancora acerbe; eppure aveva già quell'espressione tipica di certe donne adulte, perennemente in bilico tra riso e pianto, tra ingenuità e astuzia. Quel suo sorriso appena accennato era il medesimo di sempre, così come il blu della sua tunica, il modello femminile più in voga a Porto dei Cigni. Blu come il mare profondo, come la bandiera dei Principi del Golfo, come i suoi occhi dalle sopracciglia fini e lievemente arcuate.
I capelli li aveva ereditati da lui, o meglio, dalla versione più giovane di lui. Neri e lucenti come se ne vedevano spesso nelle Terre del Re, la regione che comprendeva tutte le città più importanti e antiche, pressappoco al centro della porzione di mondo ancora abitata dagli Uomini.
Dopo la malattia che aveva fatto temere il peggio, Ilharess sembrava essersi ristabilita alla perfezione: quello del suo viso delicato non era il pallore della morte, ma il candore di una giovane tenuta lontana dalle fatiche riservate alla gente comune. Una dama.
Nessuno avrebbe potuto indovinare che solo poche settimane prima ella giaceva moribonda; tutt'al più avrebbero potuto interrogarsi sulle origini di quell'insolito taglio di capelli, giacché ci sarebbe voluto ancora del tempo prima che sua figlia potesse sfoggiare nuovamente una lunga chioma intrecciata.
Avrebbero potuto innamorarsene ugualmente, a Città del Re o in qualunque altro luogo, perché era bella a sufficienza da destare l'attenzione, ma non al punto da incutere timore.
Oppure avrebbero potuto sbranarla, per la stessa identica ragione.

«Non riesci a sentirmi?»

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(Foto di Vasileios Mavrikios da Pixabay)

Ingolf superò con lo sguardo il faro in rovina, e l'estuario che scivolava silenziosamente ai loro piedi dopo aver raccolto le acque dei fiumi Neradice e Acquifreddo, poco più a monte; gettò un'occhiata alla sponda opposta, dove sopravvivevano soltanto un paio di terrazze pericolanti, dominio incontrastato dei gabbiani. Un unico sentiero dalla ghiaia fine e rarefatta si sganciava dalle macerie, come un lungo serpente di un rosa sbiadito proteso verso sacche remote e nuovamente vergini.
Era tutto ciò che la città di Porto Elfo aveva conservato fino a quel giorno.
All'ombra del faro, incuneata tra scogli rotondeggianti, galleggiava la Madre del Pirata, dove avevano trascorso la notte insieme a un esiguo e taciturno equipaggio.
Ingolf avrebbe potuto arrivare a Porto Elfo in mezza giornata, sfruttando il reticolo di correnti invisibili che avevano fatto di quella sezione di golfo uno dei tratti più ostici o agevoli, a seconda che a percorrerlo fosse un figlio di quel mare o uno straniero ignaro delle sue insidie.
Ci aveva messo il doppio, traccheggiando il più possibile e adducendo qualche strano problema al timone, per poter restare qualche ora in più al fianco di colei che ora temeva nuovamente di perdere.

Ilharess aveva liberato la statua di sua nonna da alcune foglie secche, per poi lavorare di strofinaccio fino a cancellare le tracce degli uccelli, e si apprestava ora a spargere fiori freschi ai suoi piedi, che aveva scelto e acquistato personalmente poco prima di partire.
«Vuoi saperlo?»
Ingolf cercò di sorriderle, o perlomeno di sostenere il suo sguardo, ma riuscì soltanto a evitare di scoppiare in lacrime mentre guardava il più lontano possibile da lei.
«Penso che essere padre sia la più incredibile di tutte le imprese, perché significa essere liberi ed essere condannati allo stesso tempo.»
Tirò su col naso e si schiarì potentemente la voce, per poi frugare alla ricerca della sua pipa.
«Dubito che mi ci abituerò mai», borbottò.

(Continua...)

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