La Carezza calda del vento
Era un luglio caldo, uno di quelli che avrebbe registrato picchi di umidità e afa da lasciare traccia negli annali. Io ero seduta nel vagone di seconda classe del treno per Mantova. Deserto e arido, come me al tempo. Ma amavo quel caldo, amavo quei convogli marroni ma vividi di colori di vite vissute. Me le sentivo addosso, me le sentivo soffiate dal finestrino disassato che faceva entrare in filo di vento. Le sentivo esplodere nel turbinio che si creava nella mia scollatura di seni giovani e capezzoli arcigni. Sentivo le vite passate e le parole e i gesti, i libri caduti e le urla, le litigate, le chiacchierate allegre e i pianti. Sentivo le vite espandersi ed il vento prendermi. Un luglio arido di pioggia ma copioso di emozioni invadenti e invasive. Ero un campo di battaglia ormonale e dispotico. Quel vento che mi cingeva, erano mani perse tra le cosce che si dischiudevano lente ma inarrestabili. Vento di pulsioni impossibili da arginare per la forza con la quale debordavano in me, nel mio istinto a schiaffeggiare la mia parte più pudica, ad abbattere tutte le sovrastrutture mentali reale impedimento per i miei istinti e i miei pensieri di viaggiare in praterie vergini. Il vento sul mio corpo e tra le gambe.
Quel treno marrone era la mia unica distrazione, il mio appiglio per un mondo irreale e bramato. Ero arrivata a cambiarmi d'abito prima di rientrare a casa con quel treno, indossavo una gonna larga e una camicia comoda, sempre, come una vestale mi approntavo al mio personale sacrificio alla vita. La stessa vita che mi negavo tra le mura domestiche da troppo tempo ormai. Quella fatta di incomprensioni che da latenti si erano palesate con l'esplosività dei no e dei musi lunghi, dei pianti da sola di notte e dei mancati abbracci. Troppo tempo insieme e troppe aspettative.
Sette stazioni per circa quarantacinque minuti di viaggio. Questo era il tempo di quell'abbraccio desiderato e certo di quel luglio. La mia bolla di vetro e io ballerina ad interpretare la danza delle emozioni di voglie perverse.
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C'è una linea sottile tra la vita reale e la vita immaginata. Quella linea non è fissa perché si muove con noi, col nostro sguardo. Il 28 luglio quella linea sembrò sparire.
Eravamo fermi alla stazione di metà viaggio. Io ero in quella situazione di pausa tra una carezza di vento e l'altra, come quelle donne nelle scene d'amore dei film che fumano una sigaretta dopo aver fatto l'amore e prima di ricominciare. L'orizzonte fissato poco oltre il finestrino, sulla banchina di quella stazione assolata e quasi vuota. Quasi, appunto. Lui era lì, con un mazzo di fiori, di rose rosse per la precisione. Vidi in un istante mutare il suo sguardo dallo speranzoso al teso, come se qualcosa lo avesse colpito.
Non so perché e tuttora non so spiegarlo. Presi lo zaino e scesi dal treno, un attimo prima del fischio che annunciava la chiusura delle porte. Lo guardai da lontano, aveva lo sguardo basso. Come obbligata da una forza occulta, mi avvicinai a lui. In quell'attimo lui alzò lo sguardo svelando chiaramente ciò che lo aveva affranto. Non un gesto né parole.
L'assenza.
Aspettava qualcuno, ne ero certa. Nel tempo di una folata di vento provocata dal treno che ripartiva, di quel afflato gonfio e rumoroso, la mia voce prese inaspettata linfa. Sono qui dissi.
Lui trasalì da quel torpore. Lo vidi dubbioso solo per un istante. Solo per un istante brevissimo.
Ti aspettavo e mi porse il mazzo di rose.
Non parlammo fino alla macchina che peraltro raggiungemmo velocemente. Una Camaro cabrio. Mi disse che aveva la stessa auto nella versione coupé ma che non poteva rinunciare oltremodo alla carezza del vento e che quindi aveva deciso di prendere la versione cabriolet.
Il vento che lo accarezzava accarezzava anche me. Uniti dal vento con un abbraccio di conoscenza e voglie.
La campagna scorreva ai lati con la polvere che alzavano le ruote larghe a creare un velo da sposa alla carrozzeria color rosso fuoco.
Fermati ti prego! gli sussurrai avvicinandomi all'orecchio. Vento di parole su vento. Si fermò.
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Scesi dall'auto e lui fece lo stesso. Lo presi per mano ed entrammo nel campo di grano falciato e giallo dei fusti monchi. Giallo che accende più del rosso in un abbraccio cascante nel morbido del fienile marrone. Marrone come quel vagone. Ero abbracciata e accarezzata dal suo vento adesso. E le voglie pulsavano forti e impertinenti in tutta me. Le sue mani esploravano la mia pelle senza alcuna malizia, libere e perverse tra le valli dei seni e le cavità umide come lagni di montagna. La mia schiena si inarcava e la bocca che chiedeva acqua di lingua da baciare e mela di bocca da mordere. I bottoni della camicetta bianca ma rossa di passione sbottonati senza fretta, senza distrazione. I miei bottoni, i suoi, il petto contro il petto, i miei capezzoli inturgidirsi, chiodi nel torace a perforare il cuore galoppante.
Le mani. Le mie. Un principio reazionario che esplodeva nelle mie vene. Stringevano forte il suo piacere, avide, come a volersene impadronire per sempre. Come a volersene cibare. Spostai i capelli di lato e dischiusi le labbra che avevano baciato e che ora succhiavano avidamente. Le sue dita affondavano nel mio inferno e, ansimando, facevano fermare la mia mano e la mia bocca. Eravamo un unicum in quell'abbraccio di perversione improvvisa. Mi scansò la testa con fermezza, non lasciando vuoto il mio sguardo. Occhi negli occhi e i corpi che muovevano lenti verso il basso. Occhi negli occhi, impossibile deviare, impossibile recedere. Sovrastrutture come macerie e la vita di case da ricostruire, nuove, mature.
Allargai le gambe senza imbarazzi e lui fu dentro di me con veemenza. Chiusi la mia morsa e affondai le unghie nella sua schiena nuda. Era nella mia bolla di vetro in quel pomeriggio inoltrato di luglio.
Seguivo i colpi, li sentivo fendere la mia carne e estendere il mio piacere come mai prima, come da tempo non era più. Ancora... lo urlai, lo urlai più volte, poi caddi nel pozzo della vita eterna con una esplosione orgasmica indescrivibile. non smettere... sbiascicai e non smise. Ero colma ma godevo del vino che traboccava dal bicchiere. Strinsi i suoi glutei contro di me, come ad aiutarlo a premere contro, come a catturare tutto il suo piacere.
Ti raggiungo in paradiso... urlò mentre uscì da me e inondò il mio ventre di sperma caldo. Schizzi di vita sui mei seni, sull'ombelico e sul mio pelo pubico. Mi toccai ancora, avida com'ero.
Non era amore.
L'amore costruisce aspettative quindi per amare davvero, l'importante è non amare.
Non amavo, ma ero felice di più....
Signora….signora.....signora.....!!! trasalii dal torpore.
Lei scende qui di solito!! fui scossa dalla voce del controllore che mi conosceva ormai.
Grazie risposi ancora assonnata e confusa. Mi precipitai alla porta e scesi di corsa. Mi ricomposi timida ma stranamente sorridente. Prima la gonna poi la camicetta.
Tornai a casa sorridente e senza preconcetto, come se quel sogno avesse liberato il cielo da nubi intense e minacciose.
Mio marito era lì, testa bassa sul cellulare.
Ciao gli dissi, compriamo una Camaro rossa?
di caldo non c'è solo il vento da queste parti :-))
grande ritorno @tommasobusiello!!
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Ma grazzzzieeeee 🥰
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Ero quasi sicuro che ci fosse della "topanji" in giro per questo racconto, avevo ragione, gira in Camaro!!😆😆
Bellissimo racconto, grande @tommasobusiello, ecco la nostra !BEER
!trdo
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un brindisi alla "topanji", ma quello che ho scritto va anche oltre a quello
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Certamente, ho preso spunto da lì per fare una battuta per un periodo che mi sta arrivando al gonfio, che debba iniziare a sognare anch'io?!?🤔🤔
Mah, nel dubbio beviamoci questa !BEER
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Comunque sempre viva la topanji ahahah Salute
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