La situazione nei playoff si sta surriscaldando e quando le partite cominciano ad essere decisive c’è bisogno che le star si comportino da star, ma soprattutto che il supporting cast dia davvero l’apporto necessario per togliere le castagne dal fuoco. A volte nelle battaglie all’ultimo punto c’è bisogno di cagnacci, che non mollano l’osso e che tirano fuori tutto il furore che hanno in corpo. Uno di questi è stato “The junkyard dog” (il cagnaccio, appunto) Mario Elie, newyorkese purosangue e giramondo NBA. Come spesso capita, non tutto è chiaro ad inizio carriera e il povero Mario per guadagnarsi da vivere come giocatore di basket è costretto alla gavetta e a trasferirsi in Europa, per giocare in Portogallo, più precisamente all’Ovarense. Poi la grande occasione nella città dell’amore fraterno con un contratto da 10 giorni. Phila lo taglia e finisce a Golden State; stagione successiva a Portland che lo cede a Houston nel 1994. Elie non gioca molto, le cose vanno male, la sua squadra vince il titolo, ma lui non riesce ad incidere, Houston lo vuole cedere a Phoenix che prima sembra interessata, ma infine lo snobba. In estate lavora duro, migliora il tiro, cerca di entrare negli schemi di Rudy Tomjanovich e nel 1995 arriva il turning point della sua carriera.
Aprile ‘95 secondo turno di playoff, I Phoenix Suns di Sir Charles hanno il fattore campo a favore e possono giocarsi l’elimination game nel deserto dell’Arizona. Quarto e decisivo quarto, pochi minuti al termine, la partita arriva “down to the wire” (tradotto liberamente: all’ultimo tiro), 25 secondi alla fine 110 – 109 pro Houston, ma palla Phoenix. Kevin Johnson (il piccolo grande uomo che fin lì ne ha messi 45) forza un cambio difensivo, si trova contro Robert Horry ottimo difensore, ma che non può stare con lui. Lo attacca in palleggio, grande difesa di Bob che tiene 2 palleggi e porta verso l’aiuto di Olajuwon, c’è un contatto, l’arbitro fischia un fallo dubbio, per non dire casalingo, che manda Kevin in lunetta. Johnson è un ottimo tiratore dalla lunetta, in stagione sta tirando con l’81% e in serata è 21 su 21. Il primo impatta la partita, solo rete. Il secondo esce, rimbalzo Hakeem e timeout Rockets. I Suns pressano a tutto campo, vogliono forzare una rubata, la palla è nelle mani di Sam ‘I am’ Cassel che raddoppiato alleggerisce la pressione scaricando a Robert Horry. Drexler corre incontro ad Horry, per un consegnato, ma Big shot ha una delle sue visioni cestistiche: passaggio due mani dal petto che taglia il campo in diagonale; una freccia che finisce nell’angolo nelle mani di Mario Elie che punisce una delle difese che renderà celebre lo stesso Bob ovvero il ‘wolfing out’ per levare la palla dalle mani della point guard. L’uomo da Alabama era un veterano già l’anno da rookie e questo passaggio è solo uno dei tanti esempi della sua sapienza, ma di Horry parleremo un’altra volta.
Torniamo a noi. La difesa di Phoenix è spiazzata, Horry ha creato una superiorità numerica su un quarto di campo, tagliando fuori tutti i Suns. Elie è con la palla in mano libero nell’angolo, Danny Schayes è indeciso, non sa se uscire o rimanere su Hakeem. Super Mario è meno esitante e stampa in faccia a tutta Phoenix un tiro che entra nella storia del gioco. Elie da buon newyorkese mostra la sua consueta ‘cockiness’ (spavalderia), non si scompone, guarda il pubblico che non lo ha voluto e che lo ha provocato tutta la serie e sfodera quello che fu ribattezzato ‘the kiss of death’. Partita finita:i Rockets vanno in finale di conference contro gli Spurs che batteranno 4-2. Finiranno con lo sweep contro i Magic di Shaq e Penny e il secondo anello in back to back. La Carriera di Mario da lì in poi esplode, diventa un grande role player, e un giocatore che sa mettere i big shot. Da giocatore vincente quale si considera, vincerà ancora e da protagonista. Vincerà nella sua New York, ma purtroppo da avversario. Il Madison, il suo Madison, il palazzo a cui andava in metro, lo insulta (o onora dipende dai punti di vista) gridandogli ‘Mario sucks’, coro riservato solo al grande Reggie Miller che tante volte gli aveva fatto male (‘Reggie sucks’). Il nipotino di super Mario, accorso al Garden, pianse quella sera: vedeva lo zio infilare triple su triple e il pubblico gridare Elie fa schifo (dopo gli spiegarono che lo insultavano perché gli volevano bene...chissà se ci ha creduto). Nessuno è profeta in patria e Mario non fa eccezione. La grande carriera di Elie finisce di lì a poco e oggi ha messo la sua sapienza cestistica al servizio dei Magic, essendo uno degli assistant coach più apprezzati della lega. Ancora oggi, a 20 anni di distanza, ricordiamo il gesto di Elie che assieme al choke di Reggie Miller è il gesto più significativo e che è rimasto impresso nell’immaginario collettivo di chi seguiva l’NBA in quegli anni.
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