La Palla (racconto breve)

in racconto •  7 years ago  (edited)

La Palla (racconto breve)


“Ti tiro un pugno in faccia”. Questo pensavo seduto al tavolo mentre la guardavo esplorare dei paccheri con acciughe con timidi colpi di forchetta. Nella luce soffusa del ristorante non l’avrebbe nemmeno visto arrivare; un colpo netto, con la mano chiusa, in arrivo dalla sua sinistra.
Forse con la coda dell’occhio, all’ultimo momento, avrebbe visto arrivare qualcosa, ma i suoi riflessi - già penosi - rallentati dall’alcool non avrebbero potuto nulla. Pelle contro pelle, come quando la scopo, ma con altra intensità. Il rumore sordo del colpo, forse lo scricchiolio delle ossa del naso e dello zigomo, non ci sarebbe stato tempo nemmeno per lanciare un verso di dolore, la sorpresa l’avrebbe stordita tanto quando il pugno. E poi il sangue. Tanto sangue. Sangue che cola copioso dalle narici e dal labbro spaccato, rivoli lungo il collo che le riempiono la scollatura e animano finalmente i colori spenti del vestito color panna. Le gocce sui paccheri e sul bordo del piatto bianco, un bel contrasto, da suggerire per i prossimi impiattamenti, Masterchef del cazzo.
Ancora sangue, la macchia che si allarga, anche la tovaglia che si colora, i primi avventori che si girano, qualcuno che si alza: una scena moscia che si arricchisce di vita e movimento, ci vuole poco, come accendere le scoregge alla festa delle medie, tra un gioco della bottiglia e un lento che ballano gli altri.
Non l’ho fatto, anche se la Palla mi aveva detto che potevo. Forse avrei dovuto ascoltarla.


La Palla è comparsa due mesi fa, era il 16 Giugno, ricordo la data solo perché il fato volle che nello stesso giorno cadesse l’onomastico di mio papà. L’avevo appena chiamato e nel bel mezzo della telefonata ero stato assalito da tremendi dolori di pancia, di quelli che più vicino il bagno: meglio è. Avevo tagliato corto, non che ci fosse molto da dire, nessun senso di colpa. Poi la corsa scoordinata verso la ritirata, la cintura, quei cacchio di bottoni, appena il tempo di pensare: “Ah, le buone vecchie zip”, i boxer che si accasciano sulle caviglie e i rumori umidi del mio intestino che imbratta la tazza, versione spruzzo, poca soddisfazione ma tanta liberazione.
Ero lì che assaporavo la scomparsa dei dolori e gli effluvi fetidi delle mie feci quando l’ho vista. Piantata nel muro, di aspetto gommoso, color marrone chiaro - non “beige”, Cristo santo, sono un uomo, non ho nozione di sfumature oltre ai colori secondari - presumibilmente simile a quello dei miei attuali escrementi. Non c’era fino al giorno prima, ne sono sicuro, nella stessa posizione contavo le linee tra le piastrelle e non avevo notato interruzioni aliene.
A che cazzo serve? Poi l’illuminazione: bloccaporta! La stordita si sarà finalmente rotta le palle della maniglia che sbatte sul muro e avrà fatto venire il suo ragazzino tuttofare. Un bel lavoro però, niente polvere in giro, perfetta aderenza al muro, come se ne facesse parte invece che esserci stata piantata dentro.
E poi si è mossa.
Rotazione, non più di trenta gradi, in senso antiorario. Ricordo di aver pensato di essermi sbagliato: la palla era completamente liscia, nulla che potesse avvalorare la mia tesi, solo un leggero cambio di luce, una specie di riflesso. Per un attimo…
Avevo ancora la carta in mano, doppio strato, quella soffice ma resistente, un dito nel culo non mi dispiace nel momento giusto, ma non quando il suddetto orifizio è imbrattato di resti maleodoranti. Fermo a guardare la Palla, ad attendere un’altra improbabile rotazione, cercando di capire se fosse stato un mio spostamento a scatenare quel cambio di luce, ma niente, nessun indizio sulla presenza del soprannaturale né sulla mia sanità mentale.
Ricordo di essermi alzato dalla tazza per passare al bidet e che la ritualità della risciacquatura del mio deretano ha contribuito a rimuovere il piccolo senso di inquietudine che si era fatto strada tra le mie sinapsi, ricordo di essermi lavato le mani e aver maledetto la saponetta scivolosa tra le mie dita, ricordo di essermi asciugato pensando che i nuovi asciugamani si bagnano e non asciugano. Ricordo che nell’uscire dal bagno il mio sguardo è tornata alla Palla, placida, immobile.


La mia frequentazione del bagno di casa varia dalle cinque-sei volte giornaliere, fino ad un massimo di dieci nei momenti di massima incontinenza dettati da eccesso di birra o altri alcolici consumati in quantità paragonabile alla birra. Due raschiate di denti, mattino e sera, uno svuotamento di vescica a pranzo e un paio durante la serata; le visite per il bisogno grosso sono invece irregolari, a volte multiple di uno, a volte intervallate da tre-quattro giorni. Ne saranno passati almeno tre prima che notassi nuovamente la Palla, il che vuol dire che avevo visitato il bagno almeno quindici volte senza che il pensiero mi avesse minimamente sfiorato, accreditando quella parte di me che, in seguito, ha continuato a negare la Sua esistenza ben oltre ogni ragionevole dubbio.
Siamo fatti così: rumore in cielo? Thor che martella. Fulmini? Zeus incazzato. Diluvi? Dio permaloso che ce l’ha ancora con noi per la storia della mela e finalmente ha una scusa per vendicarsi. Palla che si muove in bagno? Allucinazioni. Fattostà che trovando le mie chiappe appoggiate sull’asse della tazza per la prima volta dal 16 Giugno il mio sguardo non ha esitato e immediatamente si è posato sulla Palla. Sempre marrone chiaro, nessuna scalfitura derivante dal suo lavoro principale, la para-vicina-di-legno, niente stress evidente e un’aria vagamente soddisfatta. Come la mia nel vederla immobile, tondeggiante - forse “in carne” sarebbe più politically correct - e placida, come l’avevo lasciata. Ma anche dannatamente attraente. Se non fosse che la tazza è troppo distante dal muro di fronte mi sarei chinato in avanti per toccarla, per farci scorrere sopra le mie dita, conoscere quella superficie tra il ruvido e il liscio, tracciare il suo perimetro contro il muro, capire come c’era incastrata dentro. Se non fosse, ma è; onestamente evito molto volentieri di lasciare sgommate marroni sulla tazza o depositi di merda sul tappetino per soddisfare i miei morbosi istinti di masturbazione di un paraporte, quindi mi limito a spingere e guardare.
Odio quando la gente dice di aver fatto qualcosa per un periodo indeterminato di tempo: guarda quel cazzo di orologio che hai al polso, sul cellulare, tatuato sulla nuca o dove minchia te lo sei messo e vedrai che quel periodo indeterminato avrà subito una determinazione. Quindi so esattamente quanto tempo ho passato a guardare la Palla prima di distogliere lo sguardo, trentaquattro minuti, secondo più, secondo meno. Trentaquattro minuti di nulla, di pura attenzione senza pensieri, rapito da quella sua forma così perfetta, dalla sua aderenza al muro, dal bisogno di trovare un punto di riferimento per eventuali rotazioni immaginarie future. Trentaquattro minuti persi, o forse no.
Me lo chiedo ancora, è stata la mia attenzione? Sarebbe mai successo se avessi deciso che lo spazzolone del cesso era più degno del mio sguardo?
Non risponde a domande su di Lei, parla sempre di me.
Distolsi lo sguardo allora, il pensiero già diretto al rituale passaggio di carta e acqua tiepida, quando di nuovo, con la coda dell’occhio, quel riflesso che si muove, non proprio un riflesso però, qualcosa di diverso, come se la superficie per un attimo avesse assunto sfumature cromate, oppure un arcobaleno, che diamine ne so, colori misti. Un altro scherzo della mia immaginazione, allucinazioni si era detto, e anche questa volta il mio tentativo di capire cosa avesse prodotto quello scherzetto: il neon, una diplopia improvvisa, daltonismo acuto o, appunto, scarsa sanità mentale. Non ero pronto però al suo lento pulsare, come un cuore di un ciclista carico di Epo che batte a frequenze inferiori alle 35\minuto. Si sollevava e si accasciava, quasi impercettibilmente, ma Cristo quasi, era percettibile eccome. Un respiro, ecco, un respiro.
Abbiamo perso l’ingenuità dell’ignoranza, una volta era semplice attribuire al soprannaturale fenomeni inspiegabili: streghe, maghi, folletti, i già citati Thor e Zeus, Dio, - che poi, dico io, il “soprannaturale” è un paradosso, appena si verifica non lo è più - eh no, oggi si cerca subito la scappatoia razionale, che monotonia. Ecco che la palla che si solleva è dovuto al fatto che è gonfia, ha perso pressione, c’è acceso il ventilatore per salvaguardare l’olfatto di chi mi seguirà in questo luogo sacro e il movimento d’aria la fa muovere ritmicamente. Bam! Facile.
Però.
Però sembrava piena, di gomma, solida.
Allungo il dito per toccarla per dare soddisfazione al mio ingegno, al diavolo le sgommate, impreparato a ciò che sarebbe successo.


Ci sono punti fermi nella nostra vita, alcuni reali, altri meno, che servono ad ancorare la sanità della nostra mente ad un strada che percorriamo in comune con il resto dell’umanità. Senza quelli vaghiamo da stranieri, senza meta, in un fiume in cui siamo gli unici abitanti credibili, senza punti in comune, senza riferimenti.
La sconnessione di uno di questi crea movimenti tellurici capaci di scuotere le nostre fondamenta e di farci perdere il contatto con tutti gli altri.
Vedere la Palla ritrarsi all’avvicinarsi del mio dito ha avuto l’effetto di un’onda che sradicava le mie ancore. Non so se un pazzo sappia di esserlo o se sia convinto di essere sano, può essere un po’ di entrambe; o può darsi che tutti, prima o poi, dubitiamo della nostra sanità, ci chiediamo se siamo protagonisti di una storia o se viviamo le nostre vite, pura manifestazione della coscienza di se stessi, e dell’incoscienza di chi ha permesso ci evolvessimo così. Di una cosa sono certo, non era un’allucinazione, ne ho le prove.
Ma sono arrivate molto più tardi.


Mentre la Palla si ritraeva lo facevo anch’io, con ben altra velocità, come quando ti avvicini ad un calabrone che dovrebbe essere morto dopo la botta data col giornale e invece si mette a volare di nuovo.
“Porca troia!”
Ero sudato improvvisamente, e non per lo sforzo, schiacciato contro il copri tazza, forte dolore alla testa: nell’indietreggiare avevo tirato una botta con la nuca al muro, ma quel dolore era qualcosa di remoto, soffocato dallo shock dell’impossibile.
Dovevo uscire di lì, respirare aria fresca, ma soprattutto allontanarmi da quella...cosa, da quella...Palla. Mi gettai verso la porta, aperta di scatto, e poi via di corsa nell’anticamera, o perlomeno questa era la mia intenzione. Pantaloni e mutande alle caviglie bloccarono la mia corsa sulla soglia della porta del bagno; inciampando mi ritrovai in un volo plastico, a rallentatore. Ricordo di aver avuto il tempo di pensare che stavo uscendo troppo piano, poi di aver percepito con nitidità i piedi che si sollevavano da terra mentre il mio baricentro si spostava bruscamente in avanti, la penombra dell’anticamera che smorzava la luce fredda che usciva dal bagno, l’oggetto rettangolare che si avvicinava a me.
Poi nulla.
Al risveglio la testa mi pulsava di dolore, quello diffuso che sembra arrivare da ogni direzione. Con la mano tra i capelli radi avevo scoperto le croste del sangue rappreso, era colato lungo la nuca, il coroner non avrebbe avuto problemi ad associare la lesione con la visibile ammaccatura sul bordo del tavolino in corridoio.
C’è gente che si risveglia da uno shock, fisico o psicologico, e non sa ricostruire cosa sia successo. Nella mia testa dolorante era invece tutto limpido, ma non sapevo se fossi svenuto prima di colpire il tavolino o dopo la botta, quello proprio no. Shock fisico o psichico?
Poco importava, svenuto a terra con il culo all’aria non stavo certo a farmi seghe mentali sulla causa del mio black-out. Rialzandomi da terra, con la testa the risuonava come un tamburo Maori, avevo un’unica necessità: tornare a controllare la Palla. Coi pantaloni che strisciavano a terra, il suono acuto della fibbia della cintura che batteva il pavimento, tornai in bagno. La Palla era al suo posto, senza segni di mutazione. Visione accolta con un misto di soddisfazione e di disappunto, a quanto pare di entrambi, come ho potuto apprendere in seguito.


Seduto al posto di guida ripensavo alla follia del ristorante, mescolata agli incredibili eventi degli ultimi mesi. E’ evidente che ci fosse qualcosa che non andava in me, una rabbia repressa, sepolta in un rapporto senza futuro, che aveva deciso di sfogarsi in maniera inconsueta, tra visioni coerenti ma irrazionali e desiderio di violenza. Scommetto che è così che si consuma la maggior parte degli episodi di violenza domestica.
Lei è lì accanto, ignara dei miei pensieri maligni, sicura e protetta, sono un buon autista, soddisfatta dalla cena. E’ stata una bella serata, siamo stati bene insieme, perchè continuo a pensare che colpendola forte al viso la serata sarebbe ancora migliore? Perchè la mia unica remora è che i sedili si macchino di sangue? Perchè immaginarla agonizzante è così soddisfacente?
E’ così bella. E’ pure sorridente. Le luci della sera le scorrono sul viso virando dal rosso, al giallo, al bianco dei fari. Le ombre disegnano movimento, il movimento la rende dinamica, una mummia piena di vita. E’ contenta, ha avuto la sua serata, sono stato un gentleman, come sempre. L’ho viziata e accontentata, anche se sono gesti dettati da automatismi autoprotettivi più che da segni di indissolubile amore.
E mi chiede se possiamo fare il giro dalla strada del ponte, che c’è meno traffico, che può vedere le stelle perché non c’è inquinamento luminoso.
Certo amore che possiamo, certo.


Avevo deciso di interrompere la fortunata accoppiata visione-defecata, nei giorni successivi all’incidente del tavolino avevo quindi prestato più attenzione alla Palla, recandomi alla toilette anche solo per scrutarla per un po’.
Entrambe le mie esperienze precedenti erano state di carattere visivo, statisticamente il senso più affetto da malfunzionamento derivante da stress o disturbi. Non ero però mai arrivato ad avere il coraggio di toccarla.
La Palla sembrava non rispondere, per fortuna, alle mie attenzioni. Niente cambi di colore, riflessi o quant’altro. L’ultima esperienza però mi bloccava dall’andare oltre, il ricordo della sua superficie che si ritraeva era più forte del desiderio di smentire la mia sanità dando adito alle teorie complottiste della mia mente.
I ricordi però sono labili almeno tanto quanto i buoni propositi e non passò molto tempo prima che l’esperienza assumesse contorni grotteschi e l’umiliazione di vedere il mio deretano all’aria nel bel mezzo del corridoio fosse uno stimolo sufficiente a spingermi oltre le mie immotivate paure.
Non nel momento del bisogno però, non questa volta. L’evento andava preparato con la stessa attenzione con cui un bambino decide di avventurarsi in un luogo buio, consapevolmente innocuo, eppure pieno di pericoli immaginari. La scelta cadde su un lunedì di inizio Luglio, giornata di caldo allucinante, di quelli che anche il ventilatore suda e ti implora frescura scricchiolando ad ogni rotazione.
Lei era fuori per tutta la giornata, qualche vernissage del cavolo in cui avrebbe dato consueto sfoggio dei suoi modi affabili e dell’ipocrisia che è stella polare della sua vita inutile. Liberarmi dagli impegni, in estate, è più semplice, ma anche se non lo fosse, possono andare a farsi fottere per un pomeriggio, loro e le loro riunioni del cazzo.
La casa era silenziosa e luminosa, non fosse stato per la malsana idea di liberarmi dai mostri avrei potuto anche farmi una pennichella pomeridiana preceduta da un po’ di sano onanismo; anzi, era un buon proposito, un premio dopo il successo su me stesso.
Il bagno cieco mi aspettava dopo il corridoio, il tavolino ancora ammaccato dalla mia testata. L’interruttore della luce sulla destra della porta, quello del ventilatore subito accanto, mai che azzecchi quello giusto.
Entrando in bagno, avvolto dalla luce attenuata dalla plafoniera, ricordo di aver fatto attenzione a non sbattere la porta sulla Palla, ma non ricordo di averla chiusa.
Lei era lì, immutata, immutabile. L’ho guardata a lungo, aspettando il momento in cui avesse dato un segno della sua vitalità, ma la mia mente sembrava aver esaurito le allucinazioni circolari. Uscire da quella trance è stato uno sforzo enorme, ma lautamente ripagato.
Ho appoggiato il dito indice della mano destra sulla Palla, la sua superficie era esattamente come la immaginavo, ruvida e gommosa. Né fredda, né calda. Ho lasciato il dito scorrere lungo il Suo perimetro, la separazione dal muro completamente impercettibile, un lavoro raffinato.
Avevo trattenuto inconsapevolmente il respiro fino a quel momento, ma la scoperta che non c’era nulla di particolare in quella forma tondeggiante aveva contribuito a rilassare i miei sensi.


Fu col primo respiro che la Palla si ritrasse, la sentii scendere sotto la pressione del mio dito, quasi appiattirsi contro le piastrelle, senza però uscire dal proprio perimetro, come se rientrasse nel muro.
Poi di colpo si mosse in avanti, fluida, affogando la punta del mio dito dentro di essa, e la mia mente esplose con la sua voce.
Non era proprio una voce, non una voce umana perlomeno, ma un insieme melodioso di suoni che, per qualche ragione che sfugge completamente alla mia comprensione, il mio cervello percepiva come un linguaggio sensato. Come se parlasse una lingua straniera di cui però avevo conoscenza intima, ogni sfumatura aveva un significato.
Le sue parole era fluide e melodiose, quasi quanto la sua gommosità. Non ero più consapevole del caldo, della luce, del bagno. Ero da un’altra parte, insieme a Lei, invisibile, che mi parlava di me.
La cosa più incredibile, nonché quella che più mi ha fatto dubitare della realtà di questo incontro, era che la Palla mi conosceva profondamente. Dopo avermi tranquillizzato ha cominciato a parlare di me, di chi ero, non come mi vedono gli altri, ma come so di essere. Conosceva i miei sogni di bambino, e di come questi hanno dovuto lasciare spazio a forme geometriche precise che si incastravano in una realtà stringente. Sapeva dei miei desideri, sapeva della mia insoddisfazione e delle mie potenzialità. Sapeva che guidavo bene, sapeva che non mi piacevo più, sapeva che non sarei mai morto.
Quando mi lasciò fu come emergere da un bagno caldo e abituarsi, con riluttanza, all’aria più fredda e ad un mondo in cui la gravità vuole dire la propria. Non fu un colpo, al contrario, il mondo intorno a me prendeva forma gradualmente, e ogni dettaglio che emergeva mi indispettiva perché segnava inesorabilmente la fine di quel momento sublime.
Ripreso consistenza nel mondo reale il mio primo desiderio fu di tornare lì, dovunque fossi stato, ma la Palla non era più in vena di discorsi. Inutile continuare a premere il mio dito sulla sua superficie gommosa, inutile metterci tutta la mano, inutile parlarci.
L’onanismo non fece parte del prosieguo della mia giornata, come nemmeno il sonno. Quella rivelazione al tempo stesso terrorizzante ed entusiasmante stimolava ogni mio senso, mi sentivo euforico.
Eppure non riuscivo ad abbandonare la sensazione che tutto ciò non fosse altro che un gioco macabro della mia mente deteriorata.
Non sono un incredulo, sono anche disposto ad ammettere la presenza di “cose” che sfuggono la nostra comprensione. Quello che però non riuscivo a processare era la profonda conoscenza di me. Questo, più delle visioni, della sensazione tattile e del blackout continuava a portarmi a credere che non ci fosse nulla di reale. Un indizio schiacciante per uno abituato a ritenere inviolabile l’intimità dei propri pensieri.
Doveva essere il mio cervello, qualche elaborata forma di stupefacente che mi veniva somministrato a mia insaputa, muffe che crescevano negli angoli nascosti del bagno, o, Dio non voglia, qualche malattia rara stile Dr. House che si stava facendo strada nel mio corpo.


Ero però costantemente avvolto dal bisogno di ripetere quel momento. Le mie frequentazioni del bagno divennero così frequenti che ricevetti consiglio di vedere un andrologo, che magari, già che c’era, poteva prescrivermi anche qualche pillola colorata visto le mie deludenti prestazioni. Col cazzo deludenti. Deludenti con te, non ho bisogno di pillole per farlo diventare duro come il marmo, ho bisogno di desiderio, e tu ne ispiri tanto quanto una foglia secca in una giornata di pioggia.
La Palla però era sfuggente. La Palla, o la mia mente. La sostanza cambiava di poco, niente discorsi piacevoli in lingue sconosciute. Niente trip nell’ignoto. Niente visioni.
Almeno per una settimana, al punto tale che il mio desiderio si era trasformato in rabbia, e mi accanivo verbalmente e fisicamente sulla Palla irresponsiva.


La volta successiva fu però, se possibile, ancor meglio della prima.
Questa volta la Palla non si ritrasse al mio tocco, al contrario, la vidi deformarsi man mano che il dito si avvicinava, come se anche lei volesse incontrarlo, una specie di dipinto di Michelangelo nella Cappella Sistina, con Dio impersonato da una cosa tonda e marrone chiaro che si protende verso il mio indice.
La sensazione fluida, e poi la musica delle sue parole. Ancora, premurosa, nel tentativo di tranquillizzarmi. Ma io ero tranquillo, ardevo per quel momento da giorni, non ne potevo più di aspettare.
La sua descrizione del mio stato d’animo era precisa, aveva colto ogni mia più piccola sfumatura, il misto di desiderio e paura, la semi consapevolezza di non essere pienamente sano, persino il pensiero vagamente sessuale di essere in contatto con una controparte femminile.
Era convincente nel suo morbido assertire che la mia sanità non era in discussione, che non ero io il problema, ma il resto del mondo che non era in grado di percepire le cose come ero in grado di fare io.
Sapeva del commento fuori luogo sulle mie prestazioni, sulla crudeltà di quel messaggio, e sapeva anche la verità che mi nascondevo, la frustrazione che provavo in quei momenti nel vedermi incapace di dimostrare che ero un uomo, un uomo completo.
Sapeva come risolvere il problema, che non era difficile da risolvere, che non avevo bisogno di nessuna pillola colorata, dovevo solo usare un piccolo trucco, dovevo solo chiudere gli occhi e lasciare che l’immaginazione corresse verso la natura della mia eccitazione. Sapeva anche di cosa si trattava.


Quella notte, nudo e sudato accanto al suo corpo stanco, pensavo alla Palla, pensavo a come era stato facile immaginare che i suoi gemiti fossero in realtà imprecazioni di dolore, che il mio cazzo improvvisamente rigido e ingrossato non si inserisse nella vagina di lei ma la squarciasse come una lama nella carne.
Quei pensieri vagavano ancora nella mia testa, provocandomi soddisfazione ed eccitazione. Non fui stupito dalla presenza di un’altra erezione, ma questa volta, a soddisfarla, fu il pensiero di Lei che avvolgeva il mio dito e mi portava nel suo mondo.


I miei dialoghi con la Palla cominciarono ad essere più frequenti. Non era sempre presente, spesso passavano anche dei giorni, ma tutte le volte che il mio bisogno di Lei si trasformava in aggressività Lei si lasciava avvicinare e poi mi trascinava via.
Mi insegnava di me, di chi sono veramente, di come potevo fare per essere una persona migliore, di come potevo canalizzare le energie represse in azioni utili che portassero un beneficio reale alla mia vita, di come interrompere la mia catena autodistruttiva e diventare invece il creatore di me stesso.
Mi insegnava che la compassione è dei deboli, che l’umiltà è la qualità delle persone umili, che è sinonimo di mediocrità. Il suo marcato cinismo altro non faceva che risvegliare il mio, altrettanto marcato, e persino più affilato.
Attingevo da quei momenti come una spugna, era come se tutto ciò che mi diceva rimanesse fisso e indelebile nella mia testa, scolpito. Era come se l’avessi pensato io. Era come se fossi io l’artefice della rivoluzione che stava disegnando la mia vita.
Avevo tagliato all’osso le relazioni, limando dove non reputavo le persone all’altezza di avere a che fare con me. Un’organizzazione certosina mi aveva portato ad abbandonare tutti quegli impegni lavorativi che non portavano valore, per concentrarmi solo su quelli importanti. Avevo costruito una specie di nuvola casalinga in cui l’ipocrita potesse vivere senza assillarmi con la sua insoddisfazione.
Ad ogni nuovo incontro mi sentivo rinvigorito, cresciuto, soddisfatto. C’era sempre una crescita, c’era sempre qualcosa di nuovo che potevo fare e che rendeva la mia vita sempre più soddisfacente. Il nostro rapporto era sempre più intimo, la Palla scavava dentro di me e tirava fuori il meglio. Mi raccontava e mi ripeteva ogni concetto fino a che non diventavano miei. Erano miei.
Erano troppo miei.
Era quello che avrei voluto sempre fare, e ora lo stavo facendo, senza nessuna fatica.
Ero troppo io.
Il retropensiero che fosse tutto frutto della mia immaginazione non mi aveva mai abbandonato, non sono uno stolto, forse pazzo sì, ma non stupido. Che male c’era però? Avevo visioni e un amico invisibile che portavano come risultato una vita semplicemente meravigliosa, perché avrei dovuto preoccuparmi della mia sanità mentale? Cosa c’è di più sano di una bella introspettiva mista a meditazione che porta a galla il vero scopo della tua vita?
Perciò, trovare una conferma alle mie visioni non fu una priorità fino ad Agosto, quando la Palla si spinse oltre il limite della crescita personale, e cominciò ad insegnarmi come potevo portare beneficio modificando il mondo intorno a me.


Il suggerimento di liberarmi dell’ipocrita fu sottile, all’inizio, e pieno di ambiguità, c’erano tanti modi di interpretarlo. All’inizio pensavo che si riferisse ad una separazione. Falla sparire dalla tua vita e trova qualcuno adatto a te.
Poi la Palla, comprendendo la mia incertezza, divenne sempre più esplicita. Lei era un inizio, la sua presenza doveva essere eliminata, non solo per il mio bene, ma per quello di tutti, era intollerabile che una persone del genere fosse in grado di avvelenare e inquinare la vita di altri, per non parlare di tutto il danno che avrebbe potuto provocare a me, cosa che avrebbe sicuramente fatto.
No, doveva essere eliminata, era l’unico modo di fare un passo avanti. E poi ne sarebbero seguiti altri, altri passi, piccoli e grandi, sarebbe stato il primo di un lungo cammino verso un sogno che avrei potuto condividere con chiunque. Si poteva fare, si doveva fare. Lei sapeva come, nei dettagli, dovevo solo ascoltare.


Al risveglio da quella conversazione ero completamente consapevole di quanto profondamente sbagliato fosse anche solo prendere in considerazione quell’ipotesi. Fu allora che la questione sanità riaffiorò con prepotenza.
Tutto bene finchè si trattava di una specie di Zen interiore che mi indicava la via del Nirvana, meno bene il desiderio omicida. Non potevo più rimandare il confronto con me stesso, con la limpida percezione che la mia mente stessa andando alla deriva e che avessi bisogno di aiuto.
Nel nostro successivo incontro portai il mio cellulare, lo appoggiai sul lavandino, la telecamera accesa che inquadrava la palla, lo zoom al massimo.
Temevo che non si sarebbe presentata, che la mia mente giocasse contro e non mi desse nemmeno la soddisfazione di riconoscere la mia pazzia, ma non fu così.
La palla mi prese, e mi portò nel nostro mondo, e tornò a mostrarmi la necessità di un nuovo inizio, col melodioso suono del suo linguaggio che si sporcava delle violenze che avrei dovuto commettere, e dei meticolosi passi per uscirne indenne.


Siamo arrivati al ponte, la strada curva prima a sinistra, poi si immette sul ponte e quindi gira bruscamente a destra. Sul lato opposto c’è uno spiazzo, dove da giovani parcheggiavamo per limonare, da cui si vede tutta la valle e un cielo stellato che scioglie il cuore.
Sono consapevole adesso che è tutta una pazzia, che non c’è nulla di più bello che farle vedere tutto il mio amore e il mio desiderio, che fermarci qui a vedere le stelle è il principio di un nuovo io, attento e premuroso. Sono convinto che anche solo immaginare di farle del male è un delitto contro di lei e contro me stesso, contro la persona logica e razionale che sono sempre stato. La devo smettere di fantasticare di violenze assurde, deve chiudersi questa stupida parentesi, devo riprendere la via della sanità. Non può esserci nulla di reale in quello che ha inquinato la mia mente negli ultimi mesi.
Non può.
Non dovrebbe.
Anche se nella mia tasca ho un video che mostra la Palla che si avvolge intorno al mio dito indice, e trentadue minuti e quindici secondi di piccoli suoi movimenti, come se mi accarezzasse la pelle, e io, assente, che sorrido e annuisco. Avevo ragione, non l’ha visto arrivare, è partito quasi inconsapevolmente. Quasi. Perché quando è entrato in contatto col suo viso, tra lo zigomo e il naso, era spinto da tutta la mia forza.
L’osso dello zigomo che si spezza, rientrando. Il naso spostato, anch’esso visibilmente rotto. Il sangue, come lo avevo immaginato, scuro e copioso, ad inondarle bocca, collo, vestito. Lo shock che impedisce qualunque tipo di reazione mentre un secondo pugno la colpisce forte, allo stomaco, togliendo quel poco di respiro che le era rimasto in bocca. E’ piegata, trattenuta dalla cintura, emette un gorgoglio sordo dalla bocca impastata di sangue, riesce anche a girarsi e a guardarmi, con lo sguardo perso, un punto di domanda misto al dolore.
Io sorrido, le ho sempre voluto bene, e anche ora glielo dimostrerò dedicandomi minuziosamente a lei, abbiamo tempo prima che il passo sia completo.
Aveva ragione la Palla, è solo l’inizio.

Authors get paid when people like you upvote their post.
If you enjoyed what you read here, create your account today and start earning FREE STEEM!