La recente esplosione del valore di Bitcoin ed il fenomeno delle ICO hanno creato un improvviso interesse nei confronti delle problematiche fiscali associate al possesso ed alla movimentazione delle criptovalute.
Come spesso accade, la normativa non riesce ad adeguarsi immediatamente alle evoluzioni del mercato, e di fronte a fenomeni nuovi occorre quindi ricorrere all’interpretazione.
In questo senso, vi sono già state alcune prese di posizione autorevoli: la Corte di Giustizia UE (sentenza nella causa C264/14 del 22 ottobre 2015), chiamata a pronunciarsi in merito all’imponibilità ai fini IVA delle operazioni di cambio tra valute fiat e Bitcoin ha sancito che tali operazioni sono esenti, in quanto “operazioni finanziarie”.
In particolare al punto 49 della sentenza si legge: “le operazioni relative a valute non tradizionali, vale a dire diverse dalle monete con valore liberatorio in uno o più paesi, costituiscono operazioni finanziarie in quanto tali valute siano state accettate dalle parti di una transazione quale mezzo di pagamento alternativo ai mezzi di pagamento legali e non abbiano altre finalità oltre a quella di un mezzo di pagamento [enfasi aggiunta]”.
In un contesto analogo l’Agenzia delle Entrate italiana, chiamata a pronunciarsi in merito al trattamento fiscale delle operazioni di acquisto/vendita di Bitcoin (Risoluzione 72 del 2 settembre 2016) si è sostanzialmente allineata alla posizione della Corte UE, affermando che:
- la compravendita di Bitcoin è una prestazione di servizi esenti da IVA ex art. 10, primo comma, art. 3 del DPR 633/72;
- i margini derivanti dalla compravendita sono imponibili, per l’exchange, quali componenti del reddito d’impresa;
- le “rimanenze” di Bitcoin devono essere valutate al cambio in vigore a fine anno, ed il valore così determinato è fiscalmente rilevante (ovvero: produce plus/minusvalenze imponibili). L’Agenzia specifica che tale cambio può essere determinato facendo “riferimento alla media delle quotazioni rinvenibili sulle piattaforme online in cui avvengono le compravendite di Bitcoin”; ·
- “ai fini delle imposte sul reddito dei clienti della Società, persone fisiche che detengono i bitcoin al di fuori dell’attività d’impresa, (…) le operazioni a pronti (acquisti e vendite) non generano redditi imponibili mancando la finalità speculativa”.
Non è questa la sede per entrare nel merito delle affermazioni dell’Agenzia sotto il profilo tecnico, ma basta osservare che la posizione dei “clienti” viene presa in esame in via incidentale, allo scopo di escludere l’obbligo, per l’exchange, di operare in qualità di sostituto d’imposta.
E’ invece opportuno domandarsi se la posizione espressa dall’Agenzia sia immediatamente estensibile anche ai detentori “privati” e soprattutto se quanto scritto valga anche per altre criptovalute, o addirittura per tutte le “entità” variamente denominate che si sono recentemente diffuse nel cyberspazio grazie alla tecnologia blockchain ed altre simili.
A mio avviso sicuramente no, e nel seguito cercherò di spiegare perché.
Bitcoin è senz’altro la criptovaluta più antica, più famosa e diffusa, ma non è certamente l’unica: tra le criptovalute “alternative” più famose vale la pena menzionare Ethereum, Ripple, Monero e Tether, quest’ultima recentemente balzata agli onori delle cronache.
In linea di principio, è inappropriato (e rischioso) tentare di “interpretare le interpretazioni”, soprattutto in senso estensivo: occorre invece esaminare con attenzione il procedimento logico che ha portato l’interprete a determinate conclusioni.
La Corte UE più volte rimarca la natura di “esclusivo mezzo di pagamento” del Bitcoin (punto 48, punto 52 e punto 55 della sentenza), e l’Agenzia delle Entrate fa sostanzialmente altrettanto: è abbastanza evidente come la natura esclusiva di Bitcoin quale mezzo di pagamento sia un elemento essenziale nella valutazione delle implicazioni fiscali delle operazioni oggetto di esame da parte delle due autorità.
E’ quindi ragionevole supporre che, ove tale natura “esclusiva” fosse mancata, l’interpretazione avrebbe potuto condurre a conclusioni diverse sia sotto il profilo IVA che, soprattutto, sotto il profilo delle imposte sui redditi. In questo senso vale la pena di utilizzare, quale esempio, il Tether (USDT): grazie alle recenti vicende che hanno interessato la società emittente, sono infatti state diffuse molte informazioni che consentono di inquadrare abbastanza bene tale criptovaluta sotto il profilo giuridico (e quindi anche fiscale).
Innanzitutto, USDT è una criptovaluta emessa esclusivamente da un’entità ben individuata, la “Tether Limited”, una “limited company” incorporata in base alla Hong Kong Companies Ordinance. Questa è una differenza radicale rispetto al Bitcoin, che è invece creato attraverso la procedura di “mining” da parte di un gruppo indistinto di soggetti.
A pagina 4 del “White paper” pubblicato da Tether Ltd si legge inoltre che “Tethers may be redeemable/exchangeable for the underlying fiat currency pursuant to Tether Limited’s terms of service”, ed anche questo rappresenta una differenza sostanziale rispetto al Bitcoin: l’emittente di USDT si è infatti impegnato a convertire la criptovaluta in moneta fiat, sulla base di un cambio 1:1. Nessuno è invece “impegnato” a convertire Bitcoin in alcunché, e l’utilizzo avviene su base volontaria per puro scambio.
Gli USDT in circolazione rappresentano pertanto a tutti gli effetti un debito della Tether Limited nei confronti dei rispettivi detentori, e questo è confermato dall’affermazione riportata nel “Tether Update” pubblicato a inizio febbraio sul sito ufficiale, in cui si legge: “The company considers all tethers outstanding to be liabilities for presentation on the balance sheet for which there is always an equivalent amount (or greater) held in assets to back those presented liabilities.”
Ora, se per Thether Limited gli USDT in circolazione rappresentano un debito (“liability”), per i detentori di USDT essi rappresentano inequivocabilmente un credito. Più precisamente un credito nei confronti di una società residente a Hong Kong e denominato in dollari americani, incorporato in un titolo smaterializzato (quale è la criptovaluta USDT).
E’ del tutto evidente come un titolo con queste caratteristiche sia assai diverso dalla “divisa estera” menzionata nelle pronunce sopramenzionate, e sarebbe estremamente rischioso ritenere che il trattamento fiscale applicabile ad esso sia necessariamente uguale a quello previsto per i Bitcoin, soprattutto per quanto riguarda l’”assenza di intento speculativo”: solo le cessioni a pronti di valute estere rientrano infatti in questo ambito.
Qualsiasi altra operazione che abbia ad oggetto attività finanziarie di qualsiasi natura rientra infatti nel campo di applicazione dell’art. 67 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi, e produce redditi imponibili (in particolare “redditi diversi”).
Inoltre, il credito verso una società straniera si qualifica come "estero", e le attività finanziarie estere devono essere dichiarate ogni anno ai fini del monitoraggio fiscale (c.d. "quadro RW") e dell’Imposta sul Valore delle Attività Finanziarie Estere (IVAFE).
La qualificazione e la quantificazione dei redditi e delle consistenze estere è materia assai complessa, ma le sanzioni sono molto significative ed è poco prudente sperare di farla franca contando sull’incertezza o sulla mancanza di informazioni: le contestazioni fiscali possono insorgere anche a distanza di molto tempo rispetto alle operazioni compiute (almeno 5, ma più spesso fino a 10 anni), e nella maggior parte dei casi è il contribuente che deve dimostrare la non imponibilità dei redditi che gli vengono contestati.
Solo una gestione accurata degli adempimenti e della documentazione può assicurare una serenità adeguata e limitare i rischi.
Lo stesso discorso vale per l’infinita varietà di “token” e criptovalute in circolazione nel cyberspazio: la denominazione di “criptovaluta” non è sicuramente sufficiente per identificare il trattamento fiscale applicabile a ciascuna di esse.
E’ invece indispensabile analizzarne la natura giuridica, e stabilire se esse rappresentino “mezzi di pagamento” piuttosto che non “crediti” di qualche genere (finanziari o “in natura”, ovvero anticipi per prestazioni di servizi), oppure addirittura “compartecipazioni” al capitale di qualche entità giuridica, o quote di fondi d’investimento.
Questa analisi può rivelarsi complessa, anche per l’oggettiva scarsità di informazioni contenute nei “white paper”, che spesso non consentono neppure di stabilire con certezza chi sia il soggetto emittente, né dove sia localizzato, e per la variegata natura dei “diritti” associati ai singoli token: questa difficoltà costituisce peraltro una aggravante del rischio fiscale, e non certamente una esimente.
In estrema sintesi, tutti sanno che ogni criptovaluta è diversa dalle altre, e non esiste un motivo logico affinché queste differenze non debbano avere rilevanza anche dal punto di vista fiscale.
Questo breve articolo non permette di affrontare adeguatamente tutte le questioni fiscali connesse alle operazioni su criptovalute, che vanno ben oltre il semplice acquisto/vendita: anche le modalità di detenzione (wallet “fisico” o “account presso exchange”) hanno riflessi fiscali, così come le operazioni derivate, le operazioni a leva, i “fork”, gli “airdrop”, il “mining”, le conversioni tra token e quant’altro.
Avremo modo di approfondire queste questioni successivamente, ma nel frattempo è importante che chi opera nel campo delle criptovalute sia consapevole della complessità e dei rischi fiscali connessi a tale attività, e si attrezzi per gestirli adeguatamente.
Sapere che le criptovalute non sono tutte uguali, specialmente per il fisco, è il primo passo in questa direzione.
NOTA IMPORTANTE: qualsiasi affermazione, opinione o parere espresso in questa sede ha natura puramente informativa e generica, e non può sostituire un parere professionale con riferimento a qualsiasi caso specifico. Nessuna azione deve essere intrapresa o non intrapresa sulla base dei contenuti pubblicati su Steemit.
(Post realizzato in collaborazione con @Koinsquare, che è autorizzata a ripostarlo.)