I
Due uomini, armati di aero-dissuasori – un’arma silenziosa ed efficace per stordire il nemico – scivolarono lungo il vicolo come ombre. Il laboratorio di Eijiro aveva un unico ingresso in quello spazio angusto, ma essendo grande come cinque o sei appartamenti di livello medio era dotato di alcune finestre e fu a una di queste che essi puntarono, sicuri.
Uno dei due si arrampicò agile lungo il condotto dei rifiuti, che collegava tutti gli appartamenti dell’edificio al centro di raccolta sito sotto alla strada, dove tubi pneumatici inviavano ogni tipo di scarto ai rispettivi centri di riciclaggio. A circa tre metri dal terreno si apriva una finestra grande un metro per uno, il cui unico scopo era far penetrare un po’ di luce esterna nella stanza sottostante. Non poteva essere quindi aperta, ma il primo uomo spruzzò con cura la cornice con una bomboletta, attese alcuni secondi e poi applicò al vetro una mano, il cui guanto vi aderì come una ventosa. In pochi istanti un sibilo si fece sentire nel silenzio e la finestra si distaccò dalla sua sede, rimanendo attaccata alle sue dita. L’uomo fece un cenno al suo compagno perché l’afferrasse al volo e la lasciò cadere, quindi scivolò nel laboratorio.
Atterrò, felpato, sul pavimento uniformemente bianco, pensato perché ogni micro-componente che vi fosse caduto risultasse ben visibile. Un istante dopo, il suo compagno fu al suo fianco.
Si divisero e cominciarono a filmare tutto ciò che stava sui banchi di lavoro. Estrassero progetti e documenti dai cassetti, che Eijiro romanticamente stilava a mano prima di passare alla fase pratica, attaccarono spie downloader ai terminali, frugarono ovunque. Quindi si spostarono alla sala adiacente, anch’essa un laboratorio e ricominciarono con il loro lavoro.
Mentre erano intenti in questo, non si resero conto di un dispositivo oculare attivo collegato wireless al terminale di guardia. I due uomini, da professionisti, avevano una schermatura contro le comuni telecamere, ma non potevano immaginare che l’occhio di un robot fosse stato adattato allo scopo e mimetizzato tra i prototipi. Il terminale di guardia avvertì il movimento e lo segnalò a Teta-4, che uscì dalla cabina di ricarica e avanzò rapida sulle quattro zampe articolate.
I due uomini avvertirono il rumore molto prima che l'androide apparisse, ma quando spararono con gli aero-dissuasori non sapevano che Teta-4 fosse un robot al cento per cento, immune al disturbo dello sbalzo di pressione atmosferica. Non aveva timpani né vasi sanguigni e di certo non aveva un cervello biologico che potesse venire stordito o confuso.
«Allarme nel laboratorio due!» urlò il suo altoparlante interno a un volume assordante, «Allarme nel laboratorio due!»
I due uomini staccarono i taser dalle cinture e si avventarono contro l'androide, che essendo solamente di tipo domestico non fu in grado di reagire efficacemente all’attacco. Allontanò un uomo, senza tuttavia essere autorizzato dal suo software a danneggiarlo o stordirlo, e una potente scarica elettrica percorse i suoi circuiti quando fu colpito. Il suo hardware sibilò, mentre il sistema si spegneva per un decimo di secondo e si riavviava immediatamente grazie al safe gear, un dispositivo di controllo originariamente ideato per i robot manutentori delle linee elettriche.
«Allarme nel laboratorio due!»
Eijiro, che era addormentato col capo sul tavolo dove aveva cenato, si riscosse di colpo, perfettamente lucido a causa delle droghe di cui faceva uso. Si alzò, quasi inciampando nella vestaglia che indossava, e si precipitò in direzione del laboratorio due.
«Fermi! Ladri!» urlò, accendendo la luce.
Teta-4 venne colpita in quel momento da un’altra scarica e il suo safe gear, vecchio di anni e mai revisionato, cedette. La sua neuro-piastra frisse e le sue schede di controllo e memoria si disattivarono. Le braccia caddero inerti lungo i fianchi e la testa si abbassò in avanti, come quella di qualcuno che si addormenti seduto.
«Ladri!» urlò Eijiro fuori di sé, afferrando un prototipo di frammentatore particellare dal tavolo di lavoro al suo fianco. Era stato lui a inventarlo, anni prima, e la Triple W gliel’aveva pagato circa seicento crediti, con rate semestrali spalmate su dieci anni.
Lo puntò contro il primo uomo e premette il grilletto. Un fascio di radiazioni lo investì, frammentando le particelle di cui era composto, e quello semplicemente svanì in uno sbuffo di fumo. L’aria fu pervasa da una nebbiolina di particelle sospese, mentre altre precipitavano a terra, formando un cumuletto di polvere insignificante. Nessuno avrebbe mai detto che un uomo fosse composto di così poca sostanza, nella sua totalità.
Il secondo intruso sollevò l’aero-dissuasore e sparò a Eijiro, che vacillò. I suoi timpani vennero compressi e il suo senso dell’equilibrio alterato, mentre le palpebre gli vibravano come investite da un getto d’acqua e gli occhi gli venivano schiacciati nel cranio. Crollò a terra, svenuto, mentre l’arma scivolava sul pavimento bianco.
L’uomo si guardò attorno, lanciò un’ultima occhiata a Teta-4 e si avvicinò allo scienziato privo di sensi. Gli diede un calcio nel costato, ma non ottenne una reazione. Una volta raccolta l’arma con cui era stato frammentato il suo compagno si avviò rapido verso la finestra da cui era penetrato, certo che oramai un qualche antifurto avesse segnalato l’intrusione alle forze dell’ordine o a un’azienda di vigilanza privata.
Spostò un tavolo sotto la finestra, tre metri più in alto, vi montò sopra e saltò, appendendosi alla cornice. Fece per issarsi, ma una pistola a percussione fonica gli toccò la fronte, paralizzandolo.
«Se fossi in te, tornerei verso il basso. Con calma.»
L’uomo obbedì, lasciandosi cadere sul tavolo, e dietro la lunga canna emerse il tamburo dell’arma, sostenuto da una mano guantata di nero. Un volto parzialmente coperto da un visore metallico emerse dalla finestra e guardò verso il basso.
«Poggia il frammentatore e il dissuasore a terra. Bene. Ora fai due passi indietro. Più lunghi, non fare il furbo. Ora sdraiati faccia a terra. Ti conviene obbedire, o ti faccio uscire il cervello dalle orecchie. Ecco, bravissimo. Mani sulla testa.»
La figura si lasciò cadere sul tavolo sottostante, agilmente, e con un saltello raggiunse il pavimento. Raccolse ciò che l’uomo aveva poggiato a terra e si avviò verso la porta del laboratorio, sempre tenendolo sotto mira.
«Ora aprirò la porta. Stai fermo.»
L’uomo a terra scattò in ginocchio e rotolò dietro a un tavolo, mentre la figura impugnava l’aero-dissuasore e mirava al mobile. Sparò una serie di colpi e il deco-mobile si smontò, tornando ad essere una semplice piastra di plasto-lega. L’uomo accucciato dietro venne bersagliato da una pioggia di componenti, mentre la figura sparava un altro colpo e lo mandava a terra, stordito.
«Questo dovrebbe bastare.»
La figura passò nel laboratorio uno, si guardò un attimo intorno ed entrò nella cucina dove Eijiro si era addormentato. Tornò indietro e provò un’altra porta, trovandosi in un breve corridoio che dava sull’ingresso. Un tastierino numerico all’esterno permetteva l’accesso al locale, ma dall’interno c’era una semplice maniglia a senso unico. Per essere uno scienziato geniale, Eijiro non si era mai convertito alle moderne porte a riconoscimento né aveva ideato qualcosa di personalizzato per la sicurezza dei suoi studi.
La figura aprì la porta e fischiò. Subito due sagome emersero dalla penombra del vicolo ed entrarono nel laboratorio.
«Che è successo? Ho sentito un certo trambusto.»
«Qualcuno stava per defilarsi con un bel bottino di informazioni, dopo aver messo kappaò il dottore.»
«Chi?»
«Un uomo. È a terra senza sensi, vittima della sua stessa arma. Credo ce ne fosse un altro, ma il professore deve averlo frammentato. C’era questo prototipo, addosso all’uomo. Non credo fosse suo.»
«Vedo. Andiamo, forza.»
I tre tornarono nel laboratorio e, mentre uno legava il ladro con dei cavi presi da un tavolo, gli altri due si chinarono attorno ad Eijiro.
«Uso un impulso?»
«Sì.»
L’uomo pungolò lo scienziato con una pallina colorata terminante in uno spillone e questo riprese subito i sensi. Guardò stordito i due che lo sovrastavano e si alzò a sedere, vacillante. Un rivolo di sangue gli usciva da un orecchio.
«Ah… cosa…»
«Un ladro. L’abbiamo fermato. Ha usato su di lei un aero-dissuasore. C’è andato pesante.»
«Vorrei ben vedere, dopo quello che ho fatto al suo amico.» brontolò Eijiro.
Uno dei due sorrise.
«Di lui non è rimasto abbastanza da risalire alla sua identità. Solo un mucchietto di inutili particelle.»
«E l’altro?»
«L’abbiamo pagato con la sua stessa medicina.»
«Bene,» annuì lo scienziato, «aiutatemi.»
I due lo presero per un braccio ciascuno e lo fecero alzare, sorreggendolo mentre recuperava il senso dell’equilibrio.
Eijiro lanciò un’occhiata a Teta-4, quasi con rimpianto, ma si riscosse subito.
«E voi chi sareste?»
«Avevamo appuntamento, dottore, si ricorda? Quando siamo arrivati, abbiamo notato la finestra senza vetro. Poi abbiamo sentito dei rumori e un altoparlante che dava l’allarme. Lo so, siamo stati un po’ lenti a reagire, ma non siamo mercenari. Al contrario degli uomini che le hanno mandato contro.»
«Cosa diavolo volevano? Chi erano?»
«A giudicare dal contenuto di questa borsa, il loro obbiettivo erano i suoi progetti. Quanto a chi fossero, tante possibilità ma nessuna certezza. A ogni modo lo scopriremo. Abbiamo intenzione di portarla con noi.»
«Dove?»
«Qua non è più sicuro. La porteremo alla nostra sede. Là, per ora, la Triple W e dalle sue affiliate non possono trovarci. Dobbiamo distruggere tutto. Nessuna traccia.»
«Distruggere il mio laboratorio?» chiese Eijiro con un tremito nella voce.
«Abbiamo un mezzo qua fuori. Ci carichi tutto ciò che le serve. Poi daremo fuoco a questo posto. Cancelleremo le sue tracce. Ma dobbiamo sbrigarci. Non serviranno che pochi altri minuti prima che qualcuno si renda conto che qualcosa è andato storto.»
Eijiro esitò, quindi annuì.
«Faccio in fretta.»
«Il grosso è già qua dentro, professore» disse quello col visore.
Mentre Eijiro raccoglieva dati e schemi, i tre osservarono l’uomo privo di sensi. Un distorsore somatico era attivo da qualche parte nel suo equipaggiamento, perché il suo volto era una macchia confusa di colore, impossibile da riconoscere. Roba sofisticata, costosa.
«Si accettano scommesse sui mandanti.»
«Io non scommetto.»
«Paura di perdere?»
«Più che altro, sono sicura di perdere.»
L’uomo rise.
«Ai, bisogna che tu vada a prendere il mezzo. Noi sistemiamo il piro.»
La ragazza, il volto coperto da un cappuccio in-out, annuì e corse fuori dal laboratorio. L’uomo estrasse un oggetto simile a un grosso fagiolo rosso brillante di tasca e lo lasciò cascare a terra. Subito la scorza si aprì e la temperatura nella stanza salì percettibilmente, mentre un filo di fumo iniziava a levarsi dal pavimento.
«Ha fatto, professore?»
«Ci sono quasi!»
«Presto. Tra pochi minuti, qua dentro sarà tutto fuoco.»
II
Il portello si chiuse alle sue spalle e Grey Five respirò profondamente, mentre l’aria nella camera veniva risucchiata via. La luce ambientale da rossa virò al verde e il portello d’uscita si aprì, affacciandosi sulla struttura della Aefestus.
«Grey Five, mi senti?» disse una voce nel casco.
«Sì, comandante.»
«Bene. Ora ascoltami attentamente. Attiva le scarpe magnetiche come vi ho spiegato prima.»
«Ok. Fatto.»
«Bene. Adesso cammina verso l’esterno. Ricordati di muoverti lentamente, in modo che i magneti intelligenti capiscano quando devono sganciarsi per lasciarti sollevare il piede e viceversa. Tra te e la fusoliera della stazione ci saranno forse due metri. Non c’è gravità, quindi ti devi dare una spintarella. Piccola, mi raccomando, o finirai fuori bordo. Non devi considerare la parabola del balzo, ma solo spingerti nella direzione in cui desideri andare. Non appena toccherai la Aefestus, le tue scarpe magnetiche dovrebbero attivarsi da sole.»
«Ok.»
Grey Five esitò alcuni istanti, piegò le gambe e si spinse in avanti. Scese di un paio di metri rispetto al portellone e toccò la stazione, agganciandovisi.
«Molto bene. Ora devi dirigerti al più vicino di quei bracci articolati che vedi, tipo zampe di ragno. La nave è in posizione, più o meno, ma devi farli scorrere sui binari fino a che i loro artigli non saranno all’altezza degli anelli sulla fusoliera. A quel punto devi abbassare la leva.»
Grey Five annuì, senza pensare che Cal non potesse vedere il gesto, afferrò la sbarra di uno dei bracci e lo tirò verso di sé.
«Mi raccomando, mentre fai forza non mollare mai la presa, o potresti perdere il contatto col terreno.»
«Ok.»
Una volta che l’artiglio fu in posizione, fu sufficiente abbassare la leva – che oppose non poca resistenza – e il braccio scattò come una molla in avanti, appigliandosi all'anello sulla fusoliera.
«Fatto.»
«Bene! Ora fallo altre tre volte. Quando almeno quattro bracci saranno assicurati, potrò scendere a darti una mano.»
Ci volle quasi mezz’ora perché Grey Five, una volta presa confidenza con l’assenza di gravità, le scarpe magnetiche e i movimenti rallentati, terminasse il lavoro. Non fu necessario che Cal uscisse dalla nave, perché alla fine riuscì a mettere in posizione sette bracci su otto da sé. L’ottavo era danneggiato, forse per la collisione con un corpo vagante, e non fu possibile spostarlo da dove si trovava.
«Magnifico, Grey Five! Ora che hai fatto vedere a questi veri uomini come si fa, penso potremo raggiungerti tutti assieme.»
Mentre i galeotti, non poco umiliati dalla performance di Grey Five, fisicamente inferiore a loro, si preparavano, Cal attivò la linea con la Terra. Il foto-laser permetteva un contatto con pochissimo ritardo, nonostante l’immensa distanza che li separava dal pianeta natale.
«Qui comandante Cal Zhou, a rapporto. Abbiamo attraccato alla Aefestus.»
Passarono circa ottanta secondi, dopodiché giunse la risposta.
«Qui Terra, parla il generale Williamson. Com’è andato il viaggio?»
«Nella norma, generale. Siamo dovuti ricorrere all’attracco manuale, poiché la Aefestus pare del tutto priva di energia.»
«Non è un buon segno. Ottimo lavoro, comandante. Nessun incidente nella manovra? Tutti illesi?»
«Sissignore. Grey Five mi ha aiutato con l’attracco manuale, o allora sì che ci sarebbero stati dei problemi.»
«Eccellente. Situazione?»
«Ci prepariamo a entrare da uno dei boccaporti della stazione. Per l’esattezza,» proseguì Cal mentre usciva nel vuoto, strizzando gli occhi, «il G-22.»
Questa volta il silenzio fu più lungo.
«Sì, eccolo qua. Si tratta di un’uscita secondaria, a scopo manutenzione, ed è collegata col secondo ponte. Da lì si possono raggiungere uno dei magazzini e uno dei polmoni della nave.»
«Bene. Procediamo.»
Lentamente, come dentro l’acqua, i ventuno uomini uscirono dalla nave e procedettero verso il boccaporto, dove Grey Five li attendeva. L’oscurità sopra di loro era in un certo modo terribile, così vuota e infinita, tanto da parere sempre sul punto di inghiottirli irresistibilmente.
Cal si avvicinò al tastierino numerico e lo provò, anche se si aspettava ovviamente che non funzionasse, quindi tentò di ruotare la valvola dell’apertura manuale. Dovette farsi aiutare da altri due uomini, perché il meccanismo faceva resistenza per qualche ragione.
Alla fine riuscirono ad avere la meglio e nel silenzio siderale il tunnel di manutenzione apparve davanti a loro, buio ed immobile.
«Attivate i visori notturni.»
Gli uomini obbedirono e le visiere trasparenti dei loro caschi trasformarono il tunnel in un cilindro verdolino ricolmo di oggetti sospesi a mezz’aria. La gravità era assente anche in quell’ambiente e quando avevano aperto il portellone non vi era stata alcuna fuga di gas.
«Se volete vedere un preciso punto nel dettaglio, utilizzate il faro, altrimenti il visore notturno risulta decisamente più comodo.»
Uno degli uomini provò ad attivare il faro e si guardò attorno, illuminando un rettangolo di paratia vividamente.
«Che merda è questa?»
«Chi ha parlato?»
«Blue Five, comandante.»
«Cosa c’è?»
L’uomo indicò la cornice del portellone e Cal passò a sua volta al faro, illuminandola.
«Ma che…»
Una sostanza viscosa, di un pallido arancione, copriva il meccanismo d’apertura che aveva resistito così tenacemente ai loro sforzi. Alcune goccioline si erano sollevate, probabilmente distaccate dall’apertura del portellone, e galleggiavano pigramente in aria, formando minuscole sfere perfette.
«Non toccate quella roba» ordinò reciso Cal.
Puntò un dito verso la sostanza e il sensore nel guanto della tuta ne eseguì la scansione, spedendone le caratteristiche sulla Terra mentre, contemporaneamente, le elencava nel visore di Cal.
«Secondo l’apparecchiatura è… muffa.»
«Muffa.» ripeterono neutrali alcuni uomini.
«Questo è molto strano…» disse lui tra sé e sé.
«Comandante Zhou. Ci è arrivata una strana scansione dalla sua tuta.»
«Sì, generale. Muffa. È una sostanza viscosa, arancione pallido, che in qualche modo è cresciuta nel meccanismo d’apertura manuale del portello. Non lo trova strano?»
Mentre attendevano la risposta dalla Terra, fece gesto ai suoi uomini di procedere. Il tunnel di manutenzione non era altro che un luogo di rapido passaggio tra diverse sezioni della nave, e per questo era vuoto. Gli oggetti sospesi che avevano notato appena entrati con i visori notturni altro non erano che alcuni attrezzi, tra cui uno svitatore, una saldatrice, alcuni rivetti e un oggetto simile a un telefono che Cal riconobbe come un misuratore atmosferico, un oggettino che segnalava pressione, gravità e gas presenti in un ambiente.
«Molto strano, sì, comandante,» giunse nel frattempo la voce del generale, «non solo a causa dei protocolli d’igiene della Aefestus, ma soprattutto perché senza atmosfera sarebbe dovuta morire.»
«Infatti. Procediamo verso la prima porta sulla destra, quella per il magazzino.»
Afferrò il misuratore atmosferico e lo provò, ma l’apparecchio non reagì. Doveva essersi scaricato, niente di strano.
Procedette verso la porta automatica del magazzino, che naturalmente non si aprì. Siccome Blue Eleven, il nero con cui aveva discusso sulla nave, era il più grosso di tutti, gli aveva affidato la cassetta degli attrezzi. Gli fece cenno e quello gli si avvicinò, tendendogliela.
Le porte delle astronavi erano fatte in modo che il bordo inferiore, quello che scorreva verso l’alto, fosse coperto di una sottile banda magnetica. Cal estrasse un magneto-trattore e lo puntò verso il basso, attivandolo. La porta vibrò e, quando Cal orientò l’apparecchio verso l’alto, scorse con relativa fluidità nelle guide. Data l’assenza di gravità e di energia, non fu necessario puntellarla, poiché rimase in posizione da sé.
«Comandante, siete entrati nel magazzino? Se così fosse, su una delle pareti – quella di fronte alla porta – dovrebbe esserci il pannello per l’elica solare.»
«L’elica solare? Quindi il sole di questo sistema non è di tipo alfa, non emana radiazioni adatte ai pannelli solari. Però io non ho visto nemmeno quelli in posizione, all’esterno.»
Procedettero tra gli scaffali, lentamente. Anche lì era buio e l’atmosfera era assente.
«Cercate per il locale corpi o segni lasciati da attività umana. Per ora non abbiamo altre direttive.»
«Probabilmente non li hanno nemmeno messi in posizione, dato che il sole del sistema è di tipo beta,» gli rispose il generale, «ma è strano che le eliche stesse non siano attive. Questo non sarebbe dovuto accadere. Significa che l’interruzione improvvisa di energia è stata causata dalla mancanza di afflusso della stessa. Rimettendole in posizione, dovrebbero riattivarsi perlomeno le funzioni primarie della stazione, o almeno quelle della sezione in cui vi trovate.»
«Ricevuto, generale. Vedrò di rimettere in posizione le eliche solari, e speriamo che il problema sia tutto lì.»
Mentre gli uomini camminavano pesantemente nella stanza, Cal si diresse al ben visibile pannello di comando, contrassegnato con una saetta. Ai suoi occhi tutto appariva verde, ma quel simbolo era nettamente più chiaro dello sfondo e, quindi, risaltava. Lo aprì e seguì con un dito le file di interruttori, fino ad identificare i quattro della sezione contrassegnati con un pallino circondato da tre stanghette triangolari, inconfondibile stilizzazione di eliche o ventilatori. Li attivò tutti con un unico gesto, tirando su le levette adiacenti con l’indice, ma non accadde alcunché.
«Merda.» imprecò.
Le disattivò e riattivò un paio di volte, sperando assurdamente che ciò servisse a qualcosa, ma ovviamente non fu così.
«Generale, il pannello non risponde. È evidente, come avremmo dovuto immaginare, che le riserve di energia della Aefestus siano state consumate dai sistemi base della stazione nel tempo che abbiamo impiegato a raggiungerla. Per cui non abbiamo la possibilità di attivare le eliche solari.»
Si voltò verso la porta e vi si avviò.
«Soldati, venite con me. Tentiamo la via del polmone. Trovato qualcosa di interessante?»
«No, comandante.»
«Niente.»
«Solo componenti metalliche.»
«Allora andiamo.» disse Cal, uscendo dal magazzino.
«Comandante,» gli giunse la voce del generale, «senza apporto d’energia non sarete in grado di passare da una sezione all’altra della stazione, temo. Le camere hanno porte di sicurezza appositamente per isolare le sezioni, quindi non potrete usare alcun attrezzo per passare. Dovete drizzare le eliche solari manualmente.»
«Generale, se posso permettermi, è una follia. Non ho con me personale addestrato all’evenienza e una passeggiata lungo la fusoliera della Aefestus, col rischio di essere bombardati da corpi vaganti, allo scopo di sollevare un aggeggio alto parecchi metri a mano… è un suicidio.»
Puntò il magneto-trattore contro la porta del polmone e la aprì. All’interno di quella sala, anch’essa dalla volta cilindrica – poiché le sezioni della stazione altro non erano che cilindri collegati tra loro da sfere – parte del soffitto era trasparente, in modo da permettere ai raggi solari di penetrarvi. Le paratie scorrevoli di quella sala erano però chiuse e la serra, che occupava gran parte dell’ambiente, era colma di piante avvizzite e morte. Anche lì non vi era presenza umana, né viva né morta, e tutto era immobile, buio e silenzioso.
«Comandante Zhou, le uniche scelte che avete sono o attivare le eliche solari manualmente o fare comunque una passeggiata nel vuoto ogni volta che vorrete cambiare sezione, passando da un portello all’altro. A voi la scelta.»
Cal digrignò i denti e non rispose. Cominciava a sentire un bruciore sordo alla bocca dello stomaco e rimpianse di aver lasciato i nanobot gastrici a casa.
Alcune foglie fluttuavano lentamente nell’ambiente e Cal poté notare facilmente una falla nella divisione tra la stanza e la serra, circa un metro sopra la sua testa. Non era niente più che una crepa lunga una braccio e larga forse due dita, ma di certo un danno sufficiente a rendere inutile la separazione tra i due ambienti.
«Guarda lì» esclamò uno degli uomini e Cal si diresse da quella parte, dove già due o tre di loro scrutavano intenti dentro la serra.
«Oh cazzo…»
«Comandante, cos’è?»
In mezzo alla moltitudine di piante morte e scure un vivido fungo arancione – o almeno pareva un fungo – palpitava leggermente. Sottili filamenti della materia che aveva bloccato il portello se ne distaccavano, strisciando nell’aria e dirigendosi in direzioni casuali, senza tuttavia aderire a qualcosa in particolare.
«Cos’è quella roba là sotto?»
«Un tronco umano,» disse con voce neutrale Red Seven, gli occhietti scintillanti nel testone a lattina.
Il fungo cresceva effettivamente nello squarcio nel costato di un tronco umano, i cui arti e testa erano mancanti.
«Ah, merda.»
«Che roba sarebbe quella?»
«Generale,» disse Cal tentando di dominare malamente il tremito alla voce, «abbiamo un problema.»