I
Il nome dell’azienda che aveva mandato i tre uomini al laboratorio di Eijiro era “Humanufacture”. Lo scienziato non ne aveva mai sentito parlare e l’edificio in cui si apprestava a entrare era, in effetti, anonimo e di piccole dimensioni, con una serie di finestre blindate grandi come piatti da portata come unica interruzione in pareti di plastocemento gialline e lisce. Un digi-campanello recava la minuscola scritta “Humanufacture”, il solo luogo dove il nome apparisse, e la porta era a scomparsa, apparentemente parte del muro.
La ragazza di nome Ai si tolse il cappuccio in-out, che permetteva di vedere comodamente all’esterno ma impediva a chi fosse stato fuori di scorgere il volto di chi lo portava, sfilò un guanto e premette il pollice sul digi-campanello, che si illuminò immediatamente di verde. La parete scricchiolò lievemente e aprendosi a iride rivelò loro un corridoio d’accesso.
«Prego, professore, dopo di lei.»
Eijiro adocchiò la ragazza orientale, probabilmente non più che ventenne, dai capelli biondi e gli occhi verdi. Lui era un conservatore, che riteneva le modifiche fisiche fossero una bestemmia, ma si tenne i commenti per sé e obbedì.
Non appena i tre furono entrati dietro di lui la porta si chiuse con un sibilo e si accesero delle luci ambientali, apparentemente provenienti dalle pareti stesse. Eijiro, momentaneamente dimentico della situazione, passò una mano sul muro traslucido e luminoso con un’espressione di stupore sul volto.
«Cos’è?»
«Il risultato degli studi di uno dei nostri associati. Non è ancora stato commercializzato, ma presto lo lanceremo sul mercato.»
«A cosa è alimentato?»
«Luce ambientale ed energia motoria. Basta la scarsa luminosità di una giornata nuvolosa per mantenerlo carico e camminando, sedendosi e alzandosi dalle sedie, spostando oggetti e così via si fa altrettanto. Porterà risparmi rilevanti sulle bollette della corrente.»
«Tutti i precedenti esperimenti sull’energia motoria sono falliti. Vanno bene solamente per piccoli oggetti come orologi e telefoni, ma nemmeno l’illuminazione stradale riusciva a cavare sufficiente energia dal moto dei passanti per rimanere accesa tutta la notte.» obbiettò Eijiro con tono scettico.
«Questo nuovo modello richiede il sessantaquattro percento di energia in meno e si appoggia anche alla luce ambientale, come ho detto. Inoltre riesce a ricavare energia anche dai più piccoli movimenti, persino dall’assestamento dell’edificio, dalla pressione del vento al suo esterno e riesce addirittura a sfruttare la cinetica della pioggia.»
«Ammirevole...» ammise lo scienziato.
La ragazza gli sorrise e gli fece cenno di entrare in una porta a scorrimento. Dietro a essa una sala riunioni dall’aria comoda li accolse, con pareti olografiche in stile casa coloniale, mobili di legno e poltrone di velluto rosso. Un uomo e una donna stavano parlottando seduti l’uno di fronte all’altra, con in mano bicchieri colmi di liquido smeraldino.
«Professor Eijiro!» esclamò la donna scorgendolo. Profonde fossette apparvero ai lati del sorriso e lo scienziato si rese conto di essere davanti a una naturale, con i capelli rosso rame, gli occhi azzurri e il volto tempestato di efelidi. Mentre le stringeva la mano tesa Eijiro pensò che i naturali, ovvero coloro con tratti europei non alterati considerati universalmente belli, erano meno dell’otto percento della popolazione mondiale. Il binomio capelli rossi e occhi azzurri doveva ammontare a meno dello zero virgola due, una vera rarità.
«Io sono Vera Gibson,» si presentò lei, «come si sente?»
«Un po’ frastornato,» ammise sinceramente lui, «ma incolume. Anche se la distruzione del mio laboratorio non mi fa propriamente piacere.»
«Lo immagino bene, ma dati gli accadimenti poteva andare decisamente peggio di così.»
«Sì.» ammise lui.
L’uomo si era a sua volta alzato, sovrastandoli con una statura e una corporatura notevoli. Aveva penetranti occhi azzurri, dalle palpebre un po’ pesanti, naso affilato e radi capelli biondi, che gli conferivano un aspetto alquanto malevolo. Era anche lui un naturale, di evidenti origini slave.
«Io sono Boris Asimov,» si presentò con una voce gentile che contrastava stranamente col suo aspetto.
«Bene, a cosa devo questo… invito?»
Vera, sempre sorridendo, fece gesto alla ragazza e ai due uomini di lasciare la stanza, quindi invitò Eijiro ad accomodarsi su di una poltrona.
«Gradisce un emerald rain?»
«No, grazie. Preferisco sapere cosa sta accadendo.»
«Benissimo. Mi sembra legittimo.»
Vera posò il suo bicchiere su un basso tavolino di legno scuro e accavallò le gambe, unendo le punta delle dita in atteggiamento riflessivo.
«Professore, noi siamo i fondatori dell’azienda che ha sede in questo edificio. La Humanufacture. Lo so, non faccia quella faccia, l’aspetto è tutt’altro che attraente, almeno quello esterno. Ma lasci che le assicuri che è voluto. Non amiamo dare nell’occhio.»
Sorrise e Boris la imitò.
«Sono già diversi anni che siamo in attività, professore,» continuò quindi lui, «ma non abbiamo lanciato sul mercato nemmeno una delle numerose innovazioni che abbiamo sviluppato nei nostri laboratori. Le ragioni sono molteplici, come penso potrà immaginare. Innanzitutto il timore di intrusioni o sabotaggi da certe aziende di nostra conoscenza. In secondo luogo perché abbiamo intenzione di invadere il mercato con prodotti che lo coprano a trecentosessanta gradi contemporaneamente. Sarà un tale colpo di mano da impedire qualsiasi reazione dai nostri feroci concorrenti, perché la qualità e il prezzo e la novità saranno tali da renderli incapaci, almeno per qualche tempo, di reagire efficacemente. Oh, sì, potranno anche riuscire a bloccare qualche prodotto qua e là, a chiudere qualche negozio, a intercettare qualche corriere. Ma non tutti, decisamente no. E la Humanufacture balzerà da nulla sconosciuto a tutti a celebrità interplanetaria. Con conseguenti guadagni sia in termini di prestigio che economici.»
«Ciò che mi dite è molto interessante. Ma perché, mi chiedo, mi rivelate queste cose?»
«Perché lei, professore, è il roboticista più noto del globo. E anche quello le cui geniali invenzioni sono state meno fruttuose… almeno per il creatore.»
Eijiro non tradì alcuna emozione a quelle parole.
«Noi sappiamo, come sa la Triple W, della sua ultima invenzione. Dell’androide di nuova generazione, se vogliamo chiamarlo così. Ma, al contrario della Triple W, noi siamo interessati ad acquistarne i diritti, pagandoglieli a peso d’oro, e a mantenerla alle nostre dipendenze o come socio nei nostri laboratori per controllarne la produzione e continuare i suoi studi ed esperimenti.»
Eijiro si morse l’interno della bocca. La proposta era davvero allettante. Dopo una vita di deludenti successi e fondi mai sufficienti per sviluppare davvero ciò che aveva in mente, quella pareva un’occasione d’oro, irripetibile.
«Mi sembra che la vostra sede sia un po’… piccola. E poi, come avete finanziato per tutti questi anni il numero di prodotti di cui mi avete parlato?»
«Oh, ho avuto una cospicua eredità da mio zio. Ha mai sentito parlare di Ted Bear?»
«No.»
«Non mi stupisce. Non trova molto tempo da dedicare alla lettura, vero?»
«Decisamente no.»
«Era un noto scrittore di fantascienza. Pensi che anche tra i suoi antenati ci fu, più di mille anni fa, un Bear autore del medesimo genere. Fatto sta che mio zio morì alcuni anni or sono e mi lasciò una cospicua somma in eredità. Essendo io una cardio-chirurga, avevo il mio bel gruzzoletto da parte a cui sommarla.»
«Per quanto mi riguarda,» disse laconico Boris, «ho inventato la pistola a percussione fonica.»
Eijiro lo guardò con tanto d’occhi.
«Ma non è stata prodotta dalla Triple W? Come ne ha cavato soldi, da quegli sciacalli?»
«Ci sono diverse ragioni. Innanzitutto, le armi suscitano anche l’interesse delle forze armate. Al contrario del suo frammentatore particellare, professore, la pistola a percussione fonica non ha un elevato costo di produzione. Pertanto ne sono stati costruiti moltissimi modelli. Inoltre,» ammise con voce triste, «l’amara verità è che la maggior parte dei miei introiti provengono dalla quota societaria che ho con Ben Wu.»
«Il chirurgo estetico?»
«Già. Adesso ha un sacco di soldi, ma quando alcuni anni fa venne da me e un mio amico a chiederci un finanziamento per le sue idee era solo un ragazzotto povero e figlio di nessuno. Ora fattura alcuni miliardi di crediti l’anno e io e Vanja siamo soci al cinquantadue per cento – ventisei a testa – della New Fashion Cast.»
«Finanziare la scienza con moda assurda. Che ironia.»
Eijiro, suo malgrado, sorrise.
«A ogni modo, professor Eijiro, lei ha visto l’anonima facciata della nostra azienda. L’aspetto che la Triple W e le sue associate devono vedere. Ma abbiamo cose molto più interessanti, di sotto.»
«Di sotto?»
Vera indicò col pollice il pavimento e strizzò l’occhio.
«Le piacerebbe vedere i laboratori della Humanufacture?»
II
I ventidue membri della spedizione sulla Aefestus tornarono di corsa sulla propria nave, almeno in termini figurati. Si limitarono infatti ad avanzare con pesantezza, le scarpe magnetiche come piombi ai piedi, sino a che non furono tutti al sicuro nella sfera bianca con cui erano giunti; ma in cuor loro avevano una decisa urgenza.
C’era qualcosa, sulla stazione spaziale. Qualcosa che non conoscevano. La cosa più terrificante nella storia dell’umanità era sempre stata quella: l’ignoto.
«Comandante Zhou!» sbraitò per l’ennesima volta il generale Williamson attraverso il collegamento foto-laser, «Pretendo un immediato aggiornamento!»
Cal, che si era tolto la tuta al pari dei suoi uomini, attivò a malincuore il comunicatore.
«Non c’è molto altro da aggiungere, signore. Nel polmone della sezione abbiamo trovato un tronco umano privo di arti e testa, dal cui petto squarciato cresceva una forma di vita probabilmente aliena, simile a un fungo arancione. Questa… muffa, come l’ha classificata l’analizzatore, rilasciava filamenti che galleggiavano per il locale, i quali posso presumere essere niente più che gruppi di spore. Ma di certo non è stato un fungo alieno a fare a pezzi quell’uomo e a mettere fuori uso la Aefestus. Signore.»
Si voltò verso il suo equipaggio. Quelli erano individui abituati a ben peggio di un tronco monco, ma non era quello il problema, bensì la loro fantasia galoppante sull’autore dello spettacolo cui avevano assistito. Lui stesso, per quanto marine addestrato, non poteva fare a meno di pensare a mostri orrendi e zannuti e altre simili assurde bestialità. Di certo, se i karankatul erano coinvolti in quella faccenda, stavano sperimentando qualcosa di diverso da quanto lui avesse mai visto in quegli anni di guerra contro di essi.
«Per quanto mi riguarda, su quella nave potrebbe esserci Jack lo Squartatore con tutte le generazioni successive sino a oggi! Voi siete lì per fare un lavoro – e per Dio! – lo farete!»
Cal ringraziò che il parlottare affatto sommesso dell’equipaggio stesse coprendo il rumore dei suoi denti che fregavano con forza gli uni contro gli altri, scricchiolando e gemendo. Una palpebra prese a tremargli e vi passò su un dito, ma essa non cessò il suo moto involontario.
«S-sissignore.»
Si voltò verso gli uomini, riuscendo a imporre il silenzio senza doverlo richiedere. In quel momento vulnerabile, quei galeotti identificavano in lui la massima autorità, colui che doveva per forza avere la situazione ben salda nelle proprie mani.
«Dato che di tornare sulla Terra non se ne parla, vediamo di far fruttare il nostro tempo quassù. Se vogliamo avere uno straccio di luce, di aria, di gravità e così via dobbiamo fare sì che la Aefestus riceva energia. Per fare ciò, dobbiamo drizzare manualmente le eliche solari. Non c’è altro da fare.»
Un mugghio di scontento si levò dall’equipaggio, ma Cal continuò imperterrito a parlare.
«Ci divideremo in cinque squadre. Quattro di esse conteranno cinque elementi e usciranno sullo scafo della stazione, dirette alle eliche solari più vicine. L’ultima, di due persone, rimarrà qua sull’astronave, pronta a uscire rapidamente in caso di necessità.»
«Io là fuori non ci vado!» squittì un omuncolo pelle e ossa dalla faccia cattiva.
Cal lo guardò, glaciale.
«Preferisci tornare nella tua comoda cella, dove scontare il resto della tua vita, o tentare almeno di guadagnarti una fetta di libertà?»
«Meglio in gabbia e vivo!» sputò l’uomo.
«Il tuo nome?»
«Blue Six.»
«Bene, Blue Six, vedila così. La Triple W ha investito dei soldi su di te. Tu credi che, tornando sulla Terra senza nulla aver fatto, ti lasceranno semplicemente in pace? Non credi che qualcuno, in galera, potrebbe ricevere qualcosa in cambio di un servizietto privato per te solo? Che ne dici?»
L’omuncolo strizzò gli occhi in un’espressione di contrarietà, aggrottando il volto così da renderlo ancor più brutto e cattivo del normale.
«La prima squadra sarà composta da me, Grey Five, Red Two, Red Seven e Blue Eleven.»
Non aveva scelto quei quattro compagni per una ragione particolare, se non per il fatto di aver parlato esclusivamente con loro a tu per tu e di trovare i loro volti più familiari degli altri. Procedette quindi a formare le altre squadre, stando ben attendo a lasciare Blue Six sull’astronave, in quanto non si fidava del fatto che facesse parte di un gruppo di lavoro.
«Molto bene. Ora usciremo sullo scafo. Ci dirigeremo in quattro differenti direzioni. Rimarremo in contatto radio, quindi sarò io a darvi le indicazioni su come trovare le eliche solari.»
Una volta nuovamente nello spazio, l’unico suono che i diciannove soldati sentirono fu la voce ininterrotta di Cal che li guidava, come avesse avuto occhi ovunque, tra fari, portelli, antenne, ganci di sostegno e spezza-meteore, simili a cannoni grandi quanto utilitarie che avrebbero dovuto eliminare automaticamente i corpi vaganti superiori a una certa dimensione. A causa della mancanza di energia essi erano, ovviamente, inattivi da tempo, e lo scafo e ciò che vi si trovava sopra mostravano una moltitudine di segni e spaccature causate da rocce spaziali di varie dimensioni che vi avevano urtato contro.
Lui e il suo gruppo furono, ovviamente, i primi a trovare una delle eliche solari. Si trattava di un’asta lunga pressappoco quattro metri e spessa forse tre centimetri di diametro, incastrata nella fusoliera della stazione e tenuta al suo posto da una serie di ganci. In teoria quest’ultimi si sarebbe dovuti sganciare quando aveva attivato il pannello nel magazzino, ma ovviamente l’assenza di energia lo rendeva impossibile. Avrebbero dovuto staccarli uno ad uno - in quel momento terminò di contarli e si avvide che erano una dozzina - spaccandoli, poiché non era previsto l’intervento manuale.
Servendosi degli attrezzi portati da Blue Eleven, Cal cominciò il suo lavoro, affiancato dagli altri con strumenti simili, mentre via radio continuava a impartire istruzioni alle altre tre squadre.
Quando finalmente anche il dodicesimo gancio si fu spezzato, due squadre su tre avevano trovato le loro eliche solari e avevano cominciato il lavoro. A quel punto Cal, aiutato dagli altri, afferrò la lunga asta e cominciò a tirarla, costringendola ad alzarsi contrastando il meccanismo immobile su cui poggiava.
«Mi raccomando, tenetevi ben stretti!»
Con uno scatto l’elica si drizzò in tutta la sua altezza e sia Red Two che Red Seven si staccarono da terra nell’impeto, rimanendo però saldamente aggrappati per le mani.
«Bene ragazzi! Scendete, su, e godetevi il frutto del vostro lavoro.»
Alzarono tutti e cinque lo sguardo verso la sfera in cima all’asta che, stimolata dal vento solare, si srotolò rapida in una serie di tre pale simili a piccole vele triangolari, che cominciarono a roteare rapide sul proprio asse.
«Naturalmente un’unica elica non è affatto sufficiente, ma con le altre tre in posizione dovremmo perlomeno riuscire a dare energia a questa sezione della stazione. Una volta fatto questo, sarà più facile dirottarla in modo da passare da una parte all’altra senza eccessivi problemi.»
Si avviarono verso la nave, mentre via radio la seconda e la terza elica venivano a loro volta attivate e la quarta era a buon punto per essere liberata.
III
L'accesso ai piani inferiori della Humanufacture, al pari dell'esterno dell'edificio, era camuffato. Un ascensore era nascosto dietro un mobile impolverato in una stanza piena di cianfrusaglie, che a un occhio esterno sarebbe potuta apparire come lo sgabuzzino di un accumulatore compulsivo. Ma quando finalmente si raggiungevano i dieci metri di profondità, tutto cambiava.
L'azienda era stata costruita sopra quello che, un tempo, era stato un ampio parcheggio sotterraneo, composto da ben dodici livelli circolari capaci di accogliere oltre trecento mezzi l'uno. Eijiro non poté fare a meno di pensare a dei gironi infernali mentre le porte si aprivano e lui, Boris e Vera accedevano a un unico, gigantesco ambiente trasformato in laboratorio. Diversi scienziati lavoravano ai tavoli o ai terminali e alcuni automi domestici si muovevano rapidi e silenziosi per la sala, portando componenti e gettando scarti di lavorazione.
«In questo piano ci occupiamo della realizzazione dei singoli componenti che andranno a quelli inferiori, dove saranno assemblati. Su dodici livelli, nove sono laboratori e tre sono magazzini. Senza contare noi due e i ragazzi che sono venuti a prenderla, contiamo centottanta dipendenti. Quasi tutti fisici, meccanici, biologici, chimici, roboticisti e così via.»
«I tre che mi hanno prelevato non sono scienziati.»
«No, sono persone fidate cui affidiamo commissioni in cui non possiamo mettere la faccia senza rischiare di essere notati.»
«Dei mercenari, insomma.»
Boris rise, dando una pacca amichevole sulla schiena a Eijiro, che sentì una vertebra scricchiolare.
«Ma no, ma no, sono solo dei corrieri, alla fin fine. Parlano con persone, acquistano cose, raccolgono informazioni. Non uccidono, non rubano, non spiano e non rapiscono.»
«Ma sono armati.»
L'omone fece spallucce, senza che il sorriso abbandonasse il suo volto stranamente minaccioso.
«Non si sa mai, là fuori. A dirla tutta, non sono armi letali, solo dissuasori. Mi risulta che in tutta questa vicenda l'unico ad aver seccato qualcuno sia lei.»
Gli puntò contro un indice grosso come un salsiccia e mimò il gesto di far fuoco con una pistola.
Eijiro borbottò qualcosa, ma si astenne dal ribattere.
Vera e Boris lo accompagnarono a visitare alcuni laboratori e lui fece molte domande, ricevendo sempre risposte precise e soddisfacenti.
«Vedo che non siete specializzati in un singolo campo.»
«Come le abbiamo spiegato prima, siamo interessati a coprire il maggior numero di settori possibili. Potrebbe essere l'unico modo in cui riusciremo a resistere alla Triple W, una volta rivelatici al mondo.»
Eijiro annuì. L'idea gli sembrava valida e, a voler essere sinceri, nulla di ciò che aveva visto l'aveva deluso. Gli scienziati che lavoravano in quella struttura erano professionisti seri e aveva visto più di uno schema o un prototipo interessante.
«Cos'è questo?» chiese allungando una mano verso una calotta semisferica di colore brunito.
«Io non la toccherei fossi in lei, professore.»
Eijiro ritirò rapidamente la mano.
«Si tratta di un'arma studiata per la guerra contro i karankatul. Ma sarà meglio che glielo faccia spiegare da chi l'ha creata.»
Fece un gesto verso un uomo.
«Ehi, Rob!»
Un uomo gracile, alto e magro come un chiodo, fortemente stempiato e con gli occhi straordinariamente ingranditi da un paio di occhiali-lente trotterellò verso di loro con un sorriso.
«Questo è il professor Shimizu. Lui è Robin Wells, dottore.»
I due uomini si strinsero la mano.
«Shimizu? Eijiro Shimizu?»
«Sono io.»
«Oh, è un grande onore, signore.»
Eijiro si trattenne dal sorridere e indicò l'oggetto che aveva notato, apparentemente un fermaporta di cattivo gusto.
«Oh, questa. L'ho chiamata calotta a detonazione. Serve per combattere i karankatul.»
«Come funziona?»
Robin si spinse gli occhiali-lente sul naso e parve accorgersi solo in quel momento di averli ancora indosso. Con un sorriso imbarazzato se li tolse ed Eijiro pensò che, per contrasto, il suo volto e i suoi occhi apparivano più piccoli del normale.
«Come tutti sanno, il problema principale nell'affrontare un karankatul a distanza ravvicinata è il suo carapace. Molto resistente. I proiettili ordinari non lo penetrano e i percussori fonici non sembrano infastidirli. Ma dato che non si può permetter loro di avvicinarsi abbastanza da tramutare lo scontro in un corpo a corpo – letale per l'uomo – ho pensato di creare un apriscatole a distanza.»
Robin afferrò con cautela la calotta e la sollevò, mostrando alcuni uncini scintillanti sotto ad essa.
«Sul lato opposto c'è un reattore a scoppio con cento metri circa di autonomia. All'interno, uno stabilizzatore la mantiene nella posizione in cui è stata rilasciata. Schizza a quasi duecento chilometri orari contro il bersaglio, vi si arpiona ed esplode. Piccola, controllata, come esplosione. Probabilmente non sufficiente da uccidere un karankatul, ma se fosse più potente rischierebbe di ferire anche i nostri soldati che si trovassero nelle vicinanze. La cosa importante è che scoperchia il carapace, creando un varco di circa un metro di diametro. A quel punto, il bersaglio è vulnerabile alle armi convenzionali.»
Sorrise, posando la calotta.
«Come dicevo, non è altro che un apriscatole. Non è ancora in commercio, ma ritengo che quando lo sarà andrà a ruba. Gli abbordaggi sulle navi aliene sono sempre una carneficina, per i nostri soldati.»
Eijiro annuì, ringraziò lo scienziato e si allontanò con Boris e Vera.
«Allora, professore, che ne dice di diventare parte della nostra piccola famiglia?»
«Cosa comporterebbe ciò?»
«Nessuno stipendio fisso. Solamente una percentuale sulle vendite dei suoi lavori. Vitto, alloggio e tutto il materiale di cui necessiterà sono compresi, quindi tutto ciò che guadagnerà lo terrà per sé, cosa ne farà sono esclusivamente affari suoi. Una sezione di uno dei laboratori a sua disposizione, un automa di servizio esclusivamente di sua proprietà, un appartamento nei livelli laterali – creati apposta per ricavarne zone abitative – e, ovviamente, la paternità di tutto ciò che creerà. Due sole cose chiediamo, in cambio: l'esclusiva con la Humanufacture e la promessa che, fino a che non ci riveleremo come le abbiamo spiegato, non uscirà da questa struttura. Non possiamo rischiare di essere notati proprio ora che manca così poco.»
«Tra quanto pensate di lanciare l'azienda?»
«Un mese, forse due. Oramai i tempi sono maturi.»
Eijiro pensò di chiedere un po' di tempo per ragionarci. Poi pensò agli anni di delusioni, ai furti che aveva subìto, ai maltrattamenti delle aziende per cui aveva lavorato, al non riconoscimento dei propri meriti, al conto in banca a due cifre, alla violenza di coloro cui aveva rifiutato la collaborazione. Decise che non c'era da pensarci.
«Ci sto.»
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