Grey Five - Capitolo Tre

in fantascienza •  7 years ago 

I

Williamson non era affatto felice.
Per quanto concordasse con Killington sulla scelta fatta, renderne conto al consiglio d’amministrazione era suo compito e avere a che fare con quegli individui gli dava sempre i brividi. Lui, generale pluridecorato, sessant’anni a combattere contro i karankatul alla ricerca del loro pianeta base, che tremava di fronte a grigi occhi-scanner, capelli impomatati e cravatte nere.
«Questo Zhou sembra avere avuto un gran bel crollo durante l’assalto a una nave nemica. Ventitré anni. Senza spina dorsale. Ai miei tempi…»
«Generale, sa perfettamente che negli ultimi trent’anni il numero di crolli psicologici in battaglia è salito in maniera esponenziale.»
«Quando combattevo io i karankatul, la maggior parte dei marine se la faceva addosso dalla paura. Ma eravamo veri uomini, che diamine, non queste checche truccate piene di innesti. Si friggono il cervello solo a vederlo, il nemico.»
Killington sospirò.
«Il sottotenente Zhou si è comportato bene, nella sua breve carriera. Tredici abbordaggi. Niente male davvero: sempre sopravvissuto, niente mutilazioni. Nell’ultimo è successo qualcosa ed è crollato. Non sappiamo cosa. O finge molto bene di non ricordare o la sua mente ha veramente cancellato il fatto.»
Williamson si morse il labbro.
«Comincio a credere che i karankatul abbiano sviluppato una specie di nuova arma. Qualcosa che ti colpisce qui,» disse battendosi un indice sulla tempia, «che rende inutili anni di addestramento ed esperienza, le più ferree convinzioni.»
«Sarebbe un gran bel guaio.»
«Sono centodue anni che siamo in guerra coi karankatul. Il più lungo conflitto bellico ininterrotto nella storia dell’umanità. Tutto il pianeta, anche le nazioni nemiche tra di loro, alleato contro la minaccia aliena. Lo sa perché siamo ancora qui?»
«Perché… siamo difficili da sconfiggere?»
Williamson fece una risata amara.
«Stronzate. La media di astronavi nemiche abbattute in uno scontro nel vuoto è di una contro dodici nostre. Quando affrontiamo i karankatul su qualche pianeta, ne ammazziamo uno ogni cinque soldati che perdiamo. Non ci siamo estinti solo grazie alla tecnologia cyborg e al nostro elevato numero. No, Killington, la verità è che se gli alieni sapessero dov’è la Terra, probabilmente ci saremmo già estinti.»
«Mi stupisce che in tutto questo tempo non l’abbiano ancora scoperto.»
«Milioni di sistemi solari. Centinaia di milioni di pianeti. Non è una ricerca facile. Nemmeno noi sappiamo dove sia la base, il pianeta natale dei karankatul. Non che cambierebbe qualcosa. Non riusciremmo neanche ad avvicinarci, ne sono certo.»
«Pensa che ci siano loro dietro questa faccenda di Arcturus?»
«Chi altri? Forse fa parte di quella nuova arma che credo abbiano messo a punto. Qualcosa che ti spappola il cervello.»
«E se fossero gli aleani?»
Williamson fece una smorfia, come se l’avessero colpito in pieno volto.
«Ci si mette anche lei con queste stronzate, Killington? Gli aleani non esistono, non si sono mai visti, non c’è alcuna prova tangibile che siano mai esistiti. Preoccupiamoci dei karankatul, che sono decisamente concreti, al contrario.»
Killington scosse le spalle.
«Era solo per dire.»
«Ancora non ci credo che mandiamo ventuno condannati a morte in missione sulla Aefestus capitanati da un ragazzino stressato.»
«Non abbiamo molta scelta. Entrambi i nostri uomini disponibili sono… indisponibili.»
«Degenerazione corticale. Cazzo, pensavo fosse solo un mito, non una malattia vera.»
«Abbastanza rara, come patologia. Si manifesta esclusivamente in individui che abbiano subito massicce modifiche fisiche. Al giorno d’oggi, va piuttosto di moda.»
«Un soldato che si fa gonfiare e colorare come una puttana, ecco cos’è. Bel momento ha scelto, per ammalarsi. Proprio quando O’Hara si fa ammazzare.»
«Una coltellata al collo.»
«In un vicolo. Con i pantaloni abbassati. Migliaia di crediti e anni di lavoro per trasformarlo in un marine e poi si fa far fuori da qualche pompinara, ecco come stanno le cose.»
«Ammetto che sia piuttosto spiacevole. Per non parlare della concomitanza.»
«Con centinaia di uomini al servizio dell’azienda, come cazzo è possibile che non ci sia nessuno libero?»
«Tutti in missione» si limitò a rispondere Killington.
Williamson sbuffò.
«Speriamo di non fare una cazzata.»
«Tra i militari congedati, Zhou è quello fisicamente più prestante, che è distante dall’azione da meno tempo e che prima della crisi ha conseguito i risultati migliori. La scelta è ovvia.»
«Che ore sono?»
Killington spostò lo sguardo all’angolo inferiore sinistro dei propri occhiali e le cifre apparvero brevemente.
«Tra pochi minuti saranno le due del mattino.»
«Quanto ci metterà ad arrivare?»
«Se riesce a prendere la prima capsula transoceanica, sarà a New York tra poco meno di dieci ore. Da lì arriverà al sito di partenza in un paio d’ore massimo. Diciamo che la nave potrebbe decollare verso le quindici o le sedici, con solo un paio d’ore di ritardo sulle previsioni.»
«Bene. Speriamo che questo Zhou non sia la solita testa di cazzo.»

II

Nessun bagaglio, nessuna commissione da sbrigare. Assolutamente vietato avvertire parenti, amici, amanti. Avrebbe pensato a tutto la Triple W, con comunicazioni neutrali e scuse plausibili. L’affitto e le utenze sarebbero state pagate sino al suo ritorno e avrebbe ricevuto, a missione compiuta, una cifra con abbastanza zeri da permettersi una realroom, una casa non olografica, e a mantenerla standosene in panciolle per un pezzo. Un anticipo di diecimila crediti era già stato versato sul suo conto bancario. Aveva controllato, era vero.
Tornare nello spazio a combattere. Non credeva che gli sarebbe mai stata ridata quella possibilità. A così breve tempo dal congedo, poi! Andava a fare l’unica cosa che sapeva fare. Non poteva fallire, non doveva fallire, o questa volta non avrebbe avuto altre chance.
Mentre il taxi sfrecciava rapido sulle rotaie magnetiche respirò a fondo, forzandosi a rilassare la muscolatura. Non ho tremiti. Non ho paura. Nessuna incertezza, nessuna esitazione. Io sono un marine. Un soldato. Un killer.
Il taxi imboccò la rotaia d’accostamento, fermandosi lungo la banchina della stazione transoceanica.
«Quanto le devo?» chiese al tassista, indeciso se fosse un robot o un cyborg cui era rimasto davvero poco di umano.
«La corsa è già pagata» replicò il conducente con voce sintetizzata.
«Ah. Bene. Arrivederci.»
«Arrivederci.»
Smontò dal taxi, che ripartì silenzioso, sospeso a un paio di centimetri dai binari, salì sulla piastra a levitazione assieme ad altre due persone e quella fluttuò fino all’altezza della biglietteria.
C’era molta fila ma un uomo vestito di grigio, con occhiali ultimo modello, tratti indiani e carnagione color crema gli si avvicinò. In una mano teneva una valigetta discreta, modello a disgregazione antifurto, come declamava il simbolo rosso frastagliato con un punto esclamativo stampatovi sul dorso.
«Il signor Zhou?»
«Sì?»
«Sono Abderahmann, della Triple W. L’aspettavo. Ho il suo biglietto. Mi segua.»
Cal obbedì, sentendosi un po’ intimorito dalla rapidità ed efficienza del colosso internazionale. Sapevano sempre dove fosse e in che momento esatto. Avevano pagato il taxi, prenotato la capsula – probabilmente spostando prenotazioni preesistenti, vista la fretta – preso i biglietti e mandato qualcuno ad aspettarlo. Impressionante.
«Tra quanto parte la mia capsula?»
«Sette minuti esatti.»
Cal fece un fischio.
Giunsero ai binari, dove decine di capsule identiche attendevano, vibranti, nelle loro postazioni. Erano poco più grandi di un’utilitaria, con spazio sufficiente per quattro persone, dalla forma a mandorla. La lega metallica con cui erano costruite era opaca e non si capiva dove fosse il reattore.
«Ha una capsula privata. Desidera compagnia?»
Cal pensò che la cosa lo avrebbe aiutato a rilassarsi, forse, ma scosse comunque la testa. Dormire. Doveva dormire. Probabilmente al suo arrivo non avrebbe più avuto il tempo per un simile lusso.
«Molto bene. Eccola, è la numero undici. Prego, salga a bordo.»
Cal gli strinse la mano ed entrò nella capsula, il cui portello si chiuse con un sibilo alle sue spalle.
«Benvenuto, gentile utente. Desideri oscurare il parabrezza o assistere al viaggio?»
«Assistere, grazie.»
La parete di fronte al sedile divenne come di vetro e il condotto transoceanico apparve davanti a lui, del tutto trasparente tranne che per i sostegni che lo sorreggevano a intervalli regolari.
«Venti secondi alla partenza. Prego, allacciare la cintura di sicurezza.»
Cal obbedì.
«Cinque, quattro, tre, due, uno…»
La capsula si staccò dalla sua postazione e scivolò in avanti a dieci, venti, quaranta, ottanta, centossessanta chilometri orari. Non appena la stazione fu alle loro spalle e il condotto si gettò in mare la velocità crebbe esponenzialmente, ma Cal non ebbe alcun sentore di ciò. Il rumore attorno a lui era ovattato e a un certo punto la capsula infranse il muro del suono. Chi fosse stato nelle vicinanze avrebbe udito il bang supersonico.
Assestandosi a milletrecento chilometri orari, la capsula scivolò attraverso il Pacifico, rendendo il panorama attorno a sé confuso.
«Gentile utente, desideri che venga proiettato un film? Desideri sentire un audio-romanzo? Desideri…»
«Luci basse e silenzio, grazie. Desidero dormire.»
«Molto bene.»
La parete ridivenne opaca e le luci si attenuarono sino alla semioscurità. Cal si accomodò e chiuse gli occhi.

Alle ore quattordici e cinquantotto Cal era in una stanza asettica, bianca, priva di porte e finestre visibili, con un unico tavolo e tre sedie. Era stato invitato a sedersi in attesa che arrivassero i responsabili per parlargli, ma aveva preferito passeggiare su e giù per la stanza per sgranchirsi i muscoli indolenziti dal viaggio.
Una fessura nera apparve in una delle pareti e si allargò quel tanto da far passare un uomo massiccio, sulla novantina, seguito da Killington, quello che lo aveva contattato nel locale di Nuova Hong Kong.
«Signor Zhou, noi ci siamo già presentati. Questo è il generale Williamson, responsabile dell’operazione.»
Cal tese la mano all’uomo, che quasi la stritolò tra le dita spesse e callose. Un vero duro, anche se attempato.
«Bando ai convenevoli, Zhou. Il tempo è poco. Tra poco meno di un’ora lei sarà sulla nave o saremo costretti a dare spiegazioni per il nostro ritardo. La cosa sarebbe spiacevole.»
Cal annuì, ritenendo non ci fosse nulla da dire.
«Per farla breve, la situazione è questa: la Triple W ha richiesto ventun detenuti speciali per una missione sulla Aefestus, una stazione spaziale attualmente in orbita attorno ad Arcturus IV, una luna dove sono state edificate una costosissima struttura di ricerca e un sito minerario che estrae tonnellate di silicio. Abbiamo perso i contatti con la luna, quindi abbiamo mandato una nave piena di marine e adesso abbiamo perso pure loro e la stazione. Qualcosa non funziona come si deve, lassù, e lei e i suoi uomini avete il compito di abbordare la nave, se necessario, e scoprire cosa cazzo stia succedendo. Tutto chiaro?»
«Chiaro, signore. Un po’… riassuntivo, direi.»
Williamson sorrise.
«Ai suoi uomini sono state date informazioni più dettagliate, ma non abbiamo tempo. Le fornirò, alla partenza, un supporto con tutto ciò che deve sapere. Avrà tutto il tempo per leggere e visionare quel poco che abbiamo, non si preoccupi. Quanto alla tuta in dotazione standard, non credo di doverle spiegare il suo funzionamento.»
«Nossignore.»
«Bene. Lei sarà l’unico dotato di una vera arma, se escludiamo la tuta. Sarà un MySaint EWD 4000, tarato sulla sua impronta genetica. Dovrebbe essere stato ultimato mentre lei era in viaggio, lo riceverà assieme alla tuta.»
«Molto bene, signore. L’arma mi è familiare, anche se non è di certo quella in dotazione standard ai marine. Ne avessimo avuto una a testa, di frammentatore particellare, probabilmente non mi sarei fermato a tredici navi karankatul.»
«Un MS EWD 4000 costa quattrocentocinquanta volte una lancia al plasma, Zhou. Saremmo falliti come pianeta prima che quei brutti crostacei ci abbiano invaso.»
«Molto divertente, signore. Posso fare una domanda?»
«Rapidamente. Intanto dirigiamoci alla rampa di trasporto.»
I tre si avviarono, Williamson e Cal in testa, Killington appena dietro di loro.
«I karankatul hanno qualcosa a che fare con questa faccenda, signore?»
«Non lo sappiamo. Personalmente lo ritengo molto probabile, ma non abbiamo alcuna prova effettiva. Non ci sono state segnalazioni di passaggio né di navi né di comunicazioni. È come se fossero stati sulla luna da prima di noi, perché nulla ha rilevato un effettivo avvicinamento e atterraggio di un qualsivoglia mezzo per il viaggio spaziale. Ma se così fosse, perché hanno atteso anni per fare la loro mossa? E come mai la Aefestus, un colosso militare straripante di soldati, con più sensori al metro quadro del cesso del presidente, da un secondo all’altro è piombato nel totale silenzio? Non una comunicazione, un s.o.s., la segnalazione di un’anomalia, niente. Ore otto e zero zero, stiamo tutti bene. Ore otto e zero uno, tutti spariti.»
«Strano.»
«Già, strano. Come lei saprà, avrà sempre un contatto foto-laser con noi. Io e Killington saremo con lei dodici ore a testa, fino a che la missione non sarà terminata.»
«O saremo tutti morti.»
«O sarete tutti morti.» convenne il generale.
Mentre parlavano erano giunti alla piattaforma di trasporto, un’enorme sala cilindrica contenente una sfera bianca perfetta, liscia, priva di alcuna apertura o imperfezione. Quattro grandi bracci meccanici la sorreggevano, tenendola sospesa a qualche metro da terra, e fitti intrecci di cavi li avvolgevano strettamente. I ventuno galeotti erano già lì, abbigliati anch’essi di tute bianche da astronauta, comode e neutrali all’occhio.
«Ecco la mia ciurma.» commentò Cal con accento piratesco.
«Il fior fiore degli assassini, dei piromani, degli stupratori… c’è solo l’imbarazzo della scelta.»
Williamson si fermò a pochi passi dagli uomini, schierati in fila davanti alla nave.
«Signorine, questo è il comandante Zhou, il vostro responsabile. Sarà lui al comando della missione e voi dovrete fare riferimento a lui per qualunque cosa. È vostro interesse comportarvi come vi viene richiesto, se volete che al vostro ritorno sulla Terra il vostro lavoro venga giudicato positivamente e la vostra pena ridotta a una forma temporanea. È chiaro?»
Ci fu qualche “sissignore” e “ok amico”.
Cal passò i suoi uomini uno a uno con lo sguardo, mentre un tremito gli prendeva la mascella. Serrò i denti e si piantò le unghie nei palmi, riuscendo a reprimerlo.
«Tu, qual è il tuo nome?»
«Grey Five, comandante.»
«Che razza di nome sarebbe?»
«I suoi uomini saranno dotati di nome in codice, Zhou. Questa è la lista. Queste le schede personali.»
«Bene, le leggerò subito. Non le sembra che Grey Five sia di… corporatura insufficiente per la missione?»
«La tuta annullerà il divario tra Grey Five e gli altri. Comunque, la scheda personale è degna di rispetto. Se così vogliamo dire.»
«Capisco. Uomini, io sono Cal Zhou. Potete chiamarmi semplicemente comandante, per amor di brevità. Al contrario di tutti voi, credo, ho passato otto anni nel vuoto e ho partecipato con successo a tredici abbordaggi alle navi karankatul. Quindi, se qualcuno di voi avesse voglia di fare lo spiritoso, lo invito sin da ora a prendere in considerazione il mio curriculum. Se non vi va bene il mio comando, potete sempre farvi una passeggiata a veder le stelle, allo zero assoluto. A voi la scelta.»
Senza attendere la reazione dei galeotti, Cal si volse verso Williamson.
«Partiamo immediatamente?»
«Immediatamente.» confermò lui.
«Bene. Tutti a bordo!»
Un portello circolare si aprì nel fianco della nave, accanto a una scala semovente, e Cal superò la fila di uomini, salendo per primo.
Williamson si voltò verso Killington.
«Forse il giovane stressato se la caverà, nonostante tutto.»
«Sembra sapere il fatto suo.»
Non appena l’ultimo della fila fu entrato, il portello si richiuse alle sue spalle. Le luci nella sala si abbassarono visibilmente a causa del momentaneo dirottamento massiccio di energia attraverso il dispositivo di frammentazione particellare, le cui estremità erano i bracci che sostenevano la nave.
«Sessanta secondi alla frammentazione!» tuonò una voce metallica nella sala.
All’interno dell’astronave, gli uomini si agitarono.
«Comandante, cos’è la frammentazione?»
«Qual è il tuo codice, soldato?»
«Red Six, comandante. E non sono un soldato.»
«Ora lo sei. Da questo momento tutti voi siete soldati, tenetelo bene a mente. Non so quali palle vi abbiano raccontato, ma sappiate solo che se un ergastolano del vostro tipo viene mandato in missione significa che ci sarà da menare le mani. Questo fa di voi dei soldati. Mercenari, se preferite.»
Un brusio di malcontento accolse le sue parole.
«Per chi non lo sapesse, a ogni modo,» continuò Cal, «la frammentazione è un processo che ridurrà tutti noi in niente più che particelle, astronave compresa, in modo che possiamo essere proiettati attraverso l’atmosfera in un fascio e ricomposti al punto di raccolta.»
«È doloroso?» chiese una voce.
«In genere no.»
«Ci sono pericoli?»
«Una volta un mio commilitone è stato deframmentato male. Appena arrivati aveva un braccio che gli usciva dalla testa.»
«E cosa gli è successo?»
«È morto.»
«Tanto valeva che ci giustiziassero sulla Terra.» commentò un nero dagli occhi gialli, le cornee iniettate di sangue, il cranio calvo lucido di sudore.
«Il tuo codice, soldato?»
«Blue Eleven. Comandante.»
«La statistica indica un margine di errore di deframmentazione inferiore allo zero virgola otto per cento. La cosa ti spaventa?»
Blue Eleven parve guardarsi rapidamente attorno, consapevole di essere al centro dell’attenzione.
«Non c’è cosa che mi spaventi!» quasi sputò fuori dai denti, assurdamente bianchi nel volto nero.
«Bene. Allora, vista la pasta di cui siete fatti, non credo che nessuno di voi cederà al panico della prima volta. Dico bene?»
Nessuno si prese la briga di rispondere.
Cal controllò lo schema lampeggiante sulla parete.
«Vi farà piacere sapere che siamo già stati trasferiti alla seconda delle quattro basi che ci distanziano dalla stazione di lancio.»
I detenuti si guardarono l’un l’altro, di sottecchi.
«Non stupitevi. La rapidità di trasmissione delle particelle è tale da richiedere pochi secondi per il raggiungimento della prima base, che è relativamente vicina alla terra. Lì siamo stati frammentati di nuovo e inviati alla seconda. Voi – io – non ne avete avuto sentore perché, ovviamente, in quel momento non eravate propriamente voi. Se anche il tutto fosse accaduto mentre qualcuno di noi parlava, una volta deframmentati avremmo semplicemente continuato da dov’eravamo rimasti.»
«Com’è possibile tutto questo? E perché, se è così rapido come metodo, non viene usato per collegare un pianeta a un altro?»
«Il processo è stato teorizzato dal fisico Virek, ben quattrocento anni fa, ma solo dopo un secolo ha trovato un’effettiva dimensione pratica. Non chiedetemi i dettagli, sono solo un marine, quel poco che so è confuso e incomprensibile.
Per quanto riguarda la seconda domanda, posso essere più chiaro: le particelle di cui siamo composti non passano attraverso gli oggetti. Questo significa che lo spazio che divide due punti – la Terra dalla Luna, per esempio – dev’essere completamente sgombro, o verremmo ricomposti in maniera incompleta e, ovviamente, moriremmo. Questa è la ragione per cui sono state costruite ben quattro basi di passaggio tra la Terra e la stazione di lancio, ovvero perché ognuna di esse possa dare il via alla precedente per la trasmissione particellare, controllando una data porzione di spazio perché sia sgombra e sicura. Se io volessi essere frammentato e spedito su Saturno, dubito che più del dieci per cento di me arriverebbe a destinazione. L’unica eccezione a questa regola è l’atmosfera terrestre, ma non per un fortuito caso, quanto piuttosto – a quel che ho capito – grazie ad alcuni studi sulla penetrazione dei particolari gas che la compongono. Il tutto, alla fin fine, si può riassumere con queste parole: lo spazio è tutt'altro che vuoto. Sono stato chiaro?»
«Sì, comandante. Per cui andiamo alla stazione di lancio. Da lì la nave andrà dritta all’obbiettivo?»
«Sì, esatto. Saremo assicurati a una spirale di reattori esplosivi al plasma. Questi ci forniranno l’accelerazione massima possibile, dopodiché si distruggeranno, diminuendo la nostra massa e facendoci acquisire ulteriore velocità. A quel punto le mie conoscenze di fisica cessano di essere sufficienti a spiegare ciò che accadrà, ma posso dirvi che, sempre sulla base delle teorie di Virek, è stato messo a punto un metodo di viaggio spaziale che permette di “scattare”, se mi passate il termine, attraverso le ampie porzioni di vuoto che attraverseremo. Questo ci permetterà di giungere a destinazione a una velocità di molto superiore a quella della luce, che impiegherebbe quasi due anni solamente a raggiungere il confine del nostro sistema solare.»
Mentre parlavano la nave era effettivamente giunta alla stazione di lancio e la spirale stava scivolando attorno allo scafo.
«È giunto il momento del lancio. Dovrebbero volerci circa un paio d’ore perché le operazioni vengano ultimate. Io userò questo tempo per analizzare con attenzione le poche informazioni che abbiamo sulla missione. Voi, invece, sedetevi su quei grandi sedili bianchi dalla forma ondulata. Ce n’è uno per ognuno, per un totale di ventidue, la capienza massima prevista per una nave di questo tipo. Una volta che vi sarete accomodati i sedili vi assicureranno a loro sino al termine del viaggio e sarete sottoposti a un processo di sospensione temporanea, in cui il vostro corpo invecchierà circa venti volte più lentamente del normale e la vostra mente sarà del tutto incosciente. Vi sveglierete con la sensazione di esservi appena seduti e, benché il tempo trascorso in quello stato dovrebbe aggirarsi intorno ai due mesi, per il vostro organismo sarà come fossero trascorsi solamente tre giorni. Se non ci sono domande, vi prego di prendere posto.»
Non ce furono.

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