Grey Five - Capitolo Uno

in fantascienza •  7 years ago 

I

Duke Gallagher sedeva sprofondato nella sua poltrona magnetica dal colore quanto mai improbabile, spingendosi lievemente da destra a sinistra con una gamba, mentre l’altra era accavallata. Gli indici erano congiunti sulle labbra, a stuzzicare i baffi ispidi striati di grigio e gli occhi castani e acquosi erano fissi sulla scrivania senza veramente vederla.
Davanti a lui, seduto compostamente, con la borsa di ecofibra dall’aspetto professionale e costoso posata sulle ginocchia, attendeva in educato silenzio Joseph Killington, rappresentante della più grande azienda della storia, la Triple W. Posati sul naso, all’apparenza incollati, portava quelli che erano i più moderni e discreti occhiali multiuso che Gallagher avesse mai visto, un gioiellino della tecnica composto da due lenti prive di stanghette che si accomodavano con naturalezza sul volto dell’acquirente e fungevano, a seconda della necessità, da visori notturni, da protezione da raggi solari, polveri e pollini e, naturalmente, da correttori della vista.
Sulla sua scrivania, circondata da soprammobili polverosi rimediabili per pochi crediti a qualunque mercatino dell’antiquariato, da foto di famiglia e da un interfono decisamente antidiluviano, spiccava in bella evidenza una ololettera della Corte Suprema, con la sua elegante trama in stile papiro e il suo stemma verde e rosso dall’aria intricata proiettati come sfondo al testo.
«Così…» si decise finalmente a dire Gallagher, «così la Triple W ha bisogno di un altro gruppo di sacrificabili.»
Killington abbozzò un sorrisetto e fece per aggiustarsi gli occhiali sul naso, un tic dal quale ancora non si era liberato.
«Se le garba identificarli con questo termine. Semplicemente, la Triple W ha necessità lavorative di un certo tipo e chi meglio di un ergastolano potrebbe apprezzare la possibilità datagli?»
Gallagher fece un risolino secco. Si sentiva un raspo in gola e aveva una tremenda voglia di sputare. Gli inviati della Corte Suprema gli facevano sempre quell’effetto.
«Ha una bella faccia tosta a chiamarle “necessità lavorative”, signor Killington…»
«Dottore, prego.»
Gallagher gli lanciò un’occhiata che normalmente si sarebbe potuta riservare a qualcosa di sgradevole spiaccicato sulla strada, ma il suo ospite non fece una piega.
«Dottor Killington,» si corresse calcando quel “dottor” con sarcasmo, «dato che li mandate a farsi ammazzare. È un fatto risaputo.»
Di nuovo quel sorrisetto.
«Come ho detto poco fa, se le garba vederla a questo modo. Ma non credo che questo scambio di pareri sia la prassi, lei non crede? Ho con me una regolare lettera della Corte Suprema, che mi autorizza a prelevare i prigionieri rispondenti ai seguenti numeri di matricola: da 0013463 a 0013469 e da 0013477 a 0013490. Ciò rientra nella normale prassi di commutazione della pena a vita in servizi socialmente utili. Ciò che ne sarà poi di loro non è di sua competenza.»
Gallagher compresse le labbra fino a farle sparire dietro i baffi a spazzola.
Gli inviati della Corte Suprema erano già di per sé di una spocchia insopportabile, ma quelli che si muovevano per conto delle grandi aziende con il benestare della Corte erano semplicemente meritevoli della castrazione chimica.
Oramai erano settantacinque anni che la pena capitale era stata abolita anche nell’ultimo angolo imbarbarito del globo e dopo soli dieci anni il problema del sovraffollamento delle carceri era divenuto talmente pressante da costringere i governi a escogitare una qualche misura per salvare i soldi pubblici e, soprattutto, le poltrone. Una crisi economica di dimensioni mondiali aveva rimpolpato la fascia dei poveri e aveva dato avvio a una nuova ondata di crimini, il che aveva fatto inevitabilmente crescere – le statistiche non mentivano – il numero di quelli puniti con l’ergastolo.
Non c’era voluto molto perché la soluzione fosse rispolverata: lavori socialmente utili. Considerato il costo di mantenimento di un carcerato, si era ritenuto che farli lavorare nei settori più umili e faticosi fosse una gran bella pensata. Si riteneva che non solo i galeotti si sarebbero ripagati il costo di vitto e alloggio a spese dello Stato, ma che si sarebbero anche potuti usare quei soldi per finanziare la costruzione di nuove strutture carcerarie di basso livello, in modo da dividere gli assassini dagli scippatori e gli stupratori da truffatori e cyber-criminali.
Così, i carcerati si erano tramutati durante il giorno in posatori di linee magnetiche, facchini, manutentori di strutture fognarie e netturbini; durante la notte in ospiti dello Stato in strutture con le sbarre alle finestre e le guardie alle porte.
Nel giro di due anni, il settantotto percento delle aziende che si occupavano di posatura e manutenzione di linee magnetiche, di trasporto merci, di raccolta dei rifiuti e così via era fallita, lasciando a casa decine di migliaia di dipendenti. In un mondo con ventidue miliardi di abitanti, la conseguenza era stata inevitabile e la protesta era stata così forte che il governo aveva dovuto cessare immediatamente quella pratica, o le poltrone sarebbero scivolate via alla velocità della luce da sotto gli inamidati deretani.
A quel punto la Triple W, che da alcuni anni era divenuta la punta di diamante dei contribuenti di tutto il mondo, aveva fatto una proposta. Una proposta che non si poteva rifiutare.
Siccome l’azienda si occupava, tra le altre cose, di esplorazioni spaziali, insediamenti sperimentali, studi scientifici ed estrazioni minerarie in tre sistemi oltre quello solare, e ciò comportava altissime spese in termini di macchinari e uomini e spesso la perdita di entrambi in seguito agli incidenti più svariati, un dirigente particolarmente astuto aveva pensato: perché perdere astronauti, tecnici e scienziati di ogni tipo, che richiedono anni di preparazione e montagne di denaro, quando si potrebbero inviare nelle missioni pericolose individui sacrificabili?
E così la pena di morte era rientrata dalla porta di servizio, ma questa volta estesa a tutti. La politica aveva giocato la vecchia carta del cambiar nome alle cose, lasciandole fondamentalmente inalterate.
Qualunque detenuto, quale fosse stata la pena da scontare, aveva la possibilità di partecipare volontariamente a una missione catalogata come di pericolosità medio-alta e ottenerne, in cambio, una riduzione più o meno consistente della pena. Sempre se fosse sopravvissuto. Per quanto riguardava i condannati a uno o più ergastoli – e l’ergastolo era oramai divenuto per davvero lungo sino alla morte – questa possibilità era negata, in quanto l’incarcerazione a vita era prevista solo in casi particolarmente gravi e si riteneva non fosse accettabile che un imputato per omicidio plurimo, per esempio, avesse la possibilità di veder ridotta la propria pena.
Esistevano, però, casi particolari, in cui la Triple W introduceva richiesta alla Corte Suprema di poter utilizzare degli ergastolani per missioni definite “ad altissimo rischio” e, quasi sempre, veniva concesso il permesso di prelevare gli ospiti più costosi e pericolosi dalle carceri di massima sicurezza per mandarli a morire al macello.
Gallagher sapeva di dover consegnare gli uomini richiesti e di non aver alcun diritto di opporsi, ma non gli piaceva ciò che accadeva. Non che il problema fosse di tipo morale, legato alla crudeltà dell’operazione o al fatto che la potenza economica della Triple W fosse tale da piegare con facilità la Corte Suprema al proprio volere, impiegando esseri umani come attrezzi da basso costo. Ciò che lo disturbava era piuttosto il fatto che a un ergastolano venisse data una possibilità di uscire di galera. Nel suo intimo, era convinto che rimanere rinchiusi per il resto della propria vita in uno spazio angusto, mangiando male e subendo i soprusi dei compagni di carcere, venendo annichiliti psicologicamente e uniformati a una sub-società imbarbarita, fosse la punizione perfetta. Persino morire non era paragonabile, non si soffriva abbastanza. Non c’era cosa che distruggesse un uomo come un carcere di massima sicurezza e, anche se era decisamente improbabile che un individuo impiegato in una missione ad altissimo rischio sopravvivesse, quel barlume di speranza lo infastidiva terribilmente.
Sprofondò ulteriormente nello schienale della poltrona girevole e fissò Killington con fare inquisitorio.
«E a cosa vi servirebbero, esattamente, questi prigionieri?» chiese con fare indagatore.
Il suo ospite si limitò a sorridere.
«Come ben sa, ciò non è di sua competenza.»
Gallagher fece un gesto infastidito, come per scacciare una mosca.
«So bene quanto la Triple W ci tenga alla riservatezza e bla bla bla… so anche di non potermi opporre alla consegna. Ma potrei darvi dei problemi, rallentare la pratica, e l’azienda perderebbe tempo prezioso.»
Killington rimase impassibile.
«Se lo crede. Una settimana dovrebbe essere sufficiente ad avere un nuovo direttore del carcere di East New Talburgh. Lei cosa ne dice?»
Gallagher compresse nuovamente le labbra.
«Forse un paio di settimane.»
«In realtà credo che tre giorni sarebbero sufficienti, se non fosse imminente il week-end.»
Gallagher alzò le mani.
«D’accordo, d’accordo. Era tanto per sapere.»
«Sapere non è…»
«…di mia competenza, come dice lei. Ho una cattiva notizia, però. Il detenuto 0013469 è deceduto l’altro ieri. Attacco cardiaco.»
Per la prima volta, sul volto di Killington trasparì una punta di fastidio.
«Signor Gallagher, la avverto che se è un giochetto per rimandare il fatto, io…»
«Nessun giochetto,» lo interruppe Gallagher, «è la verità. Il detenuto un tempo conosciuto come Robert Mitchell è deceduto alle tredici in punto di mercoledì sette Ottobre tremilaquattrocentodue, anno domini. Lo vuole anche secondo il calendario cinese o il fuso orario di Panama?»
Killington corrugò la fronte.
«Molto divertente, signor Gallagher, davvero spiritoso.»
Gallagher, che nella vita aveva conosciuto e applicato l’ironia tanto quanto era andato a caccia di caimani a mani nude, sorrise con denti finti e stranamente bianchi nel volto olivastro e rugoso.
«Ciò non toglie che la faccenda crei dei problemi all’azienda. Ho una scadenza di cinque giorni per prelevare ventuno detenuti da questo carcere, la missione è molto urgente.»
Gallagher, che nella vita aveva avuto due ulcere e tre mogli, due delle quali contribuivano non poco a ridurre l’ammontare del suo stipendio e la terza che probabilmente aspettava solo di unirsi a loro, pensò che non gliene fregava proprio un cazzo dei problemi di Killington. E non gliene fregava un cazzo nemmeno della Triple W.
«…qualcun altro?»
Gallagher si riscosse.
«Scusi, mi sono distratto un attimo. Diceva?»
«Dicevo: ha per caso sottomano qualcun altro? Un ospite particolarmente sgradito di cui potrebbe sbarazzarsi senza che nessuno venga a lamentarsi?»
Gallagher cominciò a tamburellare con le dita sulla scrivania.
Era il colmo. Quel leccapiedi di dottorucolo adesso gli chiedeva aiuto. A lui! Nemmeno un minuto prima lo aveva minacciato di farlo sostituire, e adesso gli chiedeva una mano!
«Guardi, non credo che…»
Si interruppe di colpo. In realtà, qualcuno c’era.
Sorrise inconsciamente e Killington lo imitò.
«Direi che qualcuno le è venuto in mente.»
«Forse» rispose lui titubante, premendo un pulsante sulla scrivania.
Apparve un’immagine bidimensionale grande come la copertina di un tascabile, che fluttuò a mezz’aria proiettata da una lente installata a lato del pulsante. Chi l’avesse guardata da un lato non avrebbe visto alcunché e chi da dietro l’avrebbe vista rovesciata specularmente, ma dalla posizione di Gallagher era come fissare un piccolo televisore a colori con un leggerissimo effetto neve.
Il volto della sua segretaria, una donna di mezz’età che avrebbe distrutto in un istante qualunque fantasia sessuale su direttori che scopano le dipendenti nella pausa caffè, lo squadrò con occhi miopi dietro un paio di occhiali antidiluviani dalle lenti triangolari.
«Signorina Radish? Mi porti i dati del prigioniero Grey Five, per cortesia.»
«Arrivo, signore.»
L’immagine si spense.
«Grey Five?» chiese Killington alzando le sopracciglia.
Gallagher annuì.
«Il carcere è diviso in sezioni, ognuna delle quali è indicata con un colore e un determinato numero di celle. Grey Five alloggia nella cella cinque della sezione grigia, per l’appunto. È molto più rapido e semplice da ricordare del numero di matricola.»
«Ne convengo. Anche se non è ufficiale.»
«Mi pare logico» ribatté irritato Gallagher.
In quel momento la porta si aprì e Miss Radish si avvicinò alla scrivania, ignorando completamente Killington e tendendo una scheda magnetica al direttore. Lui la prese con un grugnito e fece un cenno del capo alla segretaria, che si ritirò rapidamente.
«Donna squisita Miss Radish, lei non trova?» commentò infilando la scheda in una fessura della scrivania.
«Se lo dice lei.»
«Sapeva che quell’adorabile signora colleziona farfalle?»
«Interessante...» replicò in tono annoiato Killington.
«Dicono che a letto si rifaccia del suo aspetto.»
«Come dice?»
«Niente.» rispose Gallagher digitando un codice su di una tastiera virtuale apparsa davanti a lui, «Ecco, guardi.»
«Come mai non avete un unico database?»
«A causa dell’ultimo decreto sul trattamento dei dati sensibili. Sono costretto a chiamare la segretaria per accedere a qualunque profilo, in modo che ci sia almeno una seconda persona ufficialmente a conoscenza del fatto che sto leggendo – mi viene da ridere – dati personali.»
Killington sorrise e osservò l’immagine apparsa davanti a lui. Lanciò un’occhiata fulminante a Gallagher, che rimase impassibile.
«Cos’è, un altro scherzo?»
«Niente affatto. Grey Five corrisponde perfettamente al vostro criterio di scelta degli elementi per le missioni ad alta pericolosità.»
«Su questo ci sarebbe da ridire.»
«Legga la scheda, prego.»
«Rapimento di minorenne, incendio doloso, omicidio plurimo. C’è un nove tra parentesi.»
«Esattamente.»
«Sì, ma…»
«Lei teme per gli standard fisici, giusto?»
«Sì. Senta qua. Altezza: centosettantanove centimetri. Peso: sessantotto kilogrammi. Età: venticinque anni. Converrà con me che non è proprio un fusto.»
Gallagher fece spallucce.
«E allora? Tanto è carne da macello. In ogni caso, voi non fornite tute speciali, potenziate, per questo tipo di missioni?»
«Sì, certo, ma…»
«Quindi la stazza non è così importante.»
«Va bene,» si arrese Killington, «il prigioniero 0013552 sostituirà il 0013469. Almeno la missione potrà partire nei tempi prestabiliti.»
«Molto bene.» disse Gallagher premendo nuovamente il tasto sulla scrivania.
L’immagine della segretaria apparve nuovamente a mezz’aria.
«Signorina Radish? Faccia portare i detenuti segnati sul suo promemoria nel mio ufficio e faccia uscire dall’isolamento Grey Five. Li voglio tutti qua in dieci minuti.»
«Sì, signor Gallagher.»
L’immagine si spense nuovamente.
«Isolamento?» chiese Killington.
«Sì. Due settimane fa, Grey Five ha quasi ucciso una guardia. Sei mesi di isolamento.»
Killington sollevò le sopracciglia.
«Pensavo che in queste strutture di sicurezza i detenuti non avessero accesso ad alcun tipo di oggetto che possa essere usato come arma.»
Gallagher annuì.
«Infatti. Grey Five ha aggredito una delle guardie durante l’ora d’aria mordendola al volto. Il poveraccio avrà bisogno di un naso nuovo.»
«Capisco. Dopotutto, forse fa per noi.»
Gallagher sorrise.
«Ne sono certo.»
Killington si alzò, si passò una mano sulla giacca per stirarla per bene e poi la tese al direttore, che la strinse mollemente.
«Signor Gallagher, è stato un piacere. Grazie per la collaborazione.»
«Ma si immagini» replicò lui con un sorriso bianco e plasticoso.
Quando Killington fu uscito, Gallagher emise uno sbuffo.
Per quanto odiasse tutto ciò che era appena accaduto, liberandosi di Grey Five e non accontentando la Triple W alla perfezione sentiva di aver ottenuto una piccola vittoria.

II

Cal Zhou premette la sequenza di dodici cifre sul pannello medico della sua abitazione, strizzando gli occhi nel copiarlo dal proprio dispositivo portatile ottico. Negli ultimi giorni gli era parso che numeri e lettere apparissero sfocati, come se ci fossero dei problemi di risoluzione o trasmissione. O forse era solo il suo occhio a essere spompato, esattamente come il resto del suo corpo.
Dal tubo pneumatico giunse un basso segnale acustico e la luce che ne irradiava da rossa divenne verde. Cal aprì lo sportello e prese la confezione di nanobot gastrici, di un bianco asettico con scritte di quel verde che non poteva non far pensare ai corridoi d’ospedale. Prese il bugiardino e lo gettò a terra, dove il disco autopulente si precipitò a raccoglierlo con un rumore crocchiante di carta; i nanobot gastrici – ng23s, specificava la scatola – erano quattro, ognuno con un’autonomia di quarantotto ore.
Ne pizzicò uno tra le dita e lo guardò da vicino. Sembrava una caramella mou, sia per il colore che la forma, ma se si usava sufficiente attenzione si potevano distinguere le minuscole righe che definivano le innumerevoli zampette di cui era dotato. Se lo mise in bocca e lo inghiottì con un bicchiere d’acqua microfiltrata classe due, stando bene attento a non prenderne più di un paio di sorsate. Con quel che costava, non fosse stato attento sarebbe stato costretto a passare alla classe tre o alla quattro nel giro di poche settimane e lui non sopportava il sapore di fango o, peggio, di cloro che avevano. Ora che era stato congedato, poi, la questione soldi era particolarmente spinosa.
Il telefono squillò e alla sua sinistra apparve un’immagine circolare, come un oblò illuminato d’azzurro contenente una bionda dai verdi occhi a mandorla.
«Chiamata da calypso80» lo avvertì con voce sensuale l’apparecchio.
Cal si passò le mani tra i capelli sporchi e disordinati e sospirò.
«Accetta solo con output audio.»
L’immagine svanì e al suo posto il vero volto della ragazza che lo stava chiamando apparve, con sullo sfondo una finestra affacciata su Nuova Hong Kong.
«Cal?» chiese lei facendo saettare gli occhi da un lato all’altro, come a cercarlo.
«Ciao Ai,» rispose lui con voce falsamente allegra, «scusa ma ho un problema alla cam. Non riesce a trasmettere le immagini.»
Ai fece una smorfia contrariata, ma non replicò.
«Dimmi tutto.» disse lui per riempire il silenzio.
«Sono due giorni che tento di parlarti.»
«Sono stato impegnato.»
«A fare cosa? A lavorare?» chiese lei con tono di scherno. Fece quindi un’altra smorfia.
«Scusa, non volevo infierire. È che mi scoccia che tu non abbia voluto parlarmene.»
«Non c’era molto da dire…»
«Ma che dici, dopo undici anni che eri nei marine!»
«Non è colpa loro, non avrebbero potuto fare altrimenti.»
«Avrebbero potuto spostarti alla sezione amministrativa, lontano dalla battaglia!» replicò lei agguerrita.
«Sono io che ho rifiutato, loro me l’avevano proposto.»
Nel corpo ICE – interstellar combat élite – dei marines ricopriva la carica di sottotenente, non propriamente una stella delle forze armate, e data la sua giovane età disponeva di un premio di congedo davvero ridicolo. Con la cifra che gli passava mensilmente il governo non avrebbe potuto pagarci nemmeno l’affitto e per un ex soldato colpito da PSTD come lui entrare nelle forze private era da escludersi.
Gastrite nervosa, tremori alle mani, bruxismo… l’unica cosa che avrebbe potuto fare sarebbe stato lavare i cessi, nell’esercito. Oppure stare dietro alle scartoffie. Eppure, non sapeva far altro. A dodici anni era entrato nell’YMG, che preparava gli adolescenti a diventare marine veri e propri a sedici, e ora che ne aveva ventitré e si trovava in mezzo alla strada era dolorosamente consapevole di non saper cucinare nemmeno un uovo, di non essere in grado di montare un deco-mobile o usare un bioterminale al di fuori di quelli militari di base.
«Hai rifiutato? E perché?»
«Come perché! Mi ci vedi tutto il giorno per il resto della mia vita seduto a una scrivania a gestire un database militare, firmare permessi, vidimare documenti…»
«Ma come farai senza lavoro?»
«Qualcosa troverò!»
Avrebbe potuto partecipare a uno di quei corsi di flash learning, diventare un tecnico di livello zero per interfacciarsi con le macchine industriali o imparare ad usare le bioapplicazioni edili per andare a fare il galoppino di qualche costruttore professionista.
Ma cosa andava dicendo? Lui, Cal Zhou, il terrore degli incursori karankatul, che aveva partecipato all’abbordaggio di ben tredici navi d’appoggio nemiche, ridotto a manovrare uno stupido artiglio selettore in una qualsiasi fabbrica di aero-capsule? Si era forse bevuto il cervello?
Una leggera puntura alla bocca dello stomaco gli segnalò che il nanobot gastrico era entrato in funzione. Il suo compito era di agire specificamente sulle aree danneggiate e infiammate dello stomaco, in modo da evitare una cura generica che andasse ad incidere anche sui tessuti sani. Per un paio di giorni sarebbe rimasto a galleggiare nei suoi succhi gastrici, ricucendo le micro-ulcere in via di formazione e attenuando l’infiammazione, bilanciando il pH dell’ambiente in cui si trovava. Poi la sua corazza proteica si sarebbe sfaldata e sarebbe stato a sua volta digerito.
«Qualcosa troverai? Cal, per l’amor del cielo, ma cosa? Come pagherai l’affitto? Io non posso aiutarti, lo sai che ho ancora due anni di specializzazione medica e che quel che mi passano i miei a malapena basta per le mie spese. Meno male che sono riuscita ad avere quella borsa di studio, sennò nemmeno i pantaloni sarei riuscita a comprarmi!»
«Manderò un po’ di curriculum in giro.»
«A chi? Ai rivenditori di pillole alimentari? Come supervisore degli impianti delle classi d’acqua?»
Sarebbe potuto entrare in un corpo di vigilanza privato. Anche se stressato, aveva requisiti certamente superiori a tutti quegli sfigati che ne facevano parte, scartati da esercito e forze dell’ordine ma smaniosi di detenere un potere basato sulla forza, di assaporare la sensazione d’invincibilità data dalla pistola a percussione fonica nella fondina e dal taser alla cinta.
Sospirò, forzandosi a rilassare la mascella. Si stava distruggendo lo smalto, a furia di digrignare i denti.
«Potrei fare le ronde attorno alle ville dei ricconi o nei quartieri bene, sai, per prevenire i furti a negozi e abitazioni…»
«Un corpo di vigilanza privato, quindi… Cal, davvero, tu meriti ben altro!»
«M-m-ma n-non…»
Si morse la lingua, bloccando il tremito che lo aveva preso. Respirò una, due, tre volte profondamente, finché non ebbe recuperato il controllo su se stesso.
«Cal? Tutto bene?»
«Con il problema che ho avuto cos’altro potrei fare, Ai?»
Avrebbe potuto fare il portavalori. O lavorare come istruttore di tiro – di volo no, gli avevano ritirato la licenza quando l’avevano congedato – insomma, in fondo il futuro avrebbe potuto essere più roseo di quanto stesse funestamente prevedendo.
«Ci sono più possibilità di quante pensi» affermò con voce che reputò sufficientemente decisa.
Ai sospirò. Aveva occhiaie scure che non le aveva mai visto, mal celate dall’espediente di aumentare la luminosità della sua cam. Forse era preoccupata per lui, forse aveva fatto male a non dirle nulla.
«Sii sincero con te stesso, Cal… tu sai solo fare il soldato.»
«Questo lo so da me.»
«E i mercenari non ti prenderebbero mai.»
«No di certo, ma non credo che vorrei comunque entrare in quell’ambiente,» obbiettò lui, «sono più organizzazioni criminali che altro. Io ho sempre combattuto il nemico. Non voglio andare in giro ad ammazzare le altre persone.»
Il dolore allo stomaco era cessato, grazie al nanobot che gli aveva parzialmente anestetizzato la zona offesa.
Sì, poteva farcela. La guerra contro i karankatul era logorante e molti facevano la sua fine, se non rimanevano direttamente uccisi in battaglia, perché quei mostri erano difficili da tirar giù e molto abili nel combattimento. Il presidente attualmente in carica li aveva definiti “gli spartani di alfa centauri”, benché non provenissero affatto da lì, e lui si era dovuto far spiegare il senso di quell’affermazione. Era una cosa antica, storia, roba che non ti danno da studiare se sei un YMG, c’è ben altro da imparare, ma il concetto era chiaro: un popolo interamente dedito all’arte della guerra. Chiaro, semplice. I karankatul erano proprio così.
Certo, loro non erano gli stupidi indigeni primitivi della luna-miniera su cui li avevano incontrati per la prima volta. L’umanità ne aveva fatti, di passi in avanti, e la tecnologia superiore del nemico non era comunque tale da dar loro un batosta definitiva. Era un tira e molla perpetuo, pianeta per pianeta, luna per luna: un giorno gli uomini conquistavano una regione rocciosa e inospitale, completamente inutile se non da un punto di vista visivo sulle carte dei territori blu e rossi, il giorno dopo i karankatul se la riprendevano. Ogni tanto le flotte spaziali si scontravano, distruggendo miliardi e miliardi di crediti di astronavi ed equipaggiamento e uccidendo qualche centinaio di giovani cadetti. Talvolta i marine riuscivano ad abbordare una nave avversaria – perché la realtà era che i deviatori del nemico erano davvero efficienti e l’unico modo per abbatterne qualcuna era dall’interno – e cominciava una schermaglia che poteva durare ore ed ore, in cui tutta la mostruosità e la brutalità dei karankatul si riversava sui giovani soldati. Se sopravvivevi, eri un fortunato. Se anche la tua mente rimaneva intatta, eri un miracolato. Per Cal era stato così, fino alla quattordicesima incursione.
«Fai qualcosa stasera?» cambiò argomento Ai, esibendosi in un sorriso stanco.
«No, io… penso che rimarrò a casa a navigare, per vedere se c’è qualche lavoro disponibile.»
«Per un paio d’ore potresti anche staccare. C’è quella nuova neuro-proiezione comica, come si chiama… “L’Alieno e la Bella”. Offro io, dai.»
«Non è una proiezione sui mostri?»
«Sì, lo dico io che è comico. È un film di quelli trash da quattro soldi, tutti effetti speciali di second’ordine e cliché allucinanti. Una cosa leggera.»
Cal esitò. Forse avrebbe dovuto accettare. Staccare un attimo. Anche per non perdere il rapporto con Ai. Stavano insieme da quattro anni e lui non la vedeva da un mese, da quando aveva avuto la crisi. Si erano sentiti qualche volta, mentre lui era ricoverato all’ospedale psichiatrico militare, ma quando era stato congedato tre giorni addietro aveva smesso di rispondere alle sue chiamate. Lei gli piaceva, era una ragazza carina, intelligente, ma lui si sentiva talmente una merda da desiderare solo di stare solo e isolarsi da tutto ciò che lo circondava.
Avrebbe potuto fare carriera. Sarebbe potuto diventare qualcuno. E invece era solo l’ennesimo ex marine tremante, impaurito dalla propria ombra, che finiva in mezzo a una strada senza risparmi, senza nessuna esperienza del mondo, senza amici.
Si sarebbe potuto crogiolare nel proprio dolore tra le braccia della bionda Ai, sfogarsi tra le lenzuola del minuscolo letto del college…
«Magari domani, eh? Stasera voglio fare ‘sto lavoro e togliermi il pensiero.»
Lei fece un sorriso tremulo.
«Allora ti chiamo domani?»
«Non preoccuparti, ti chiamo io.»
«Va bene, bene… allora… a domani. E fai aggiustare questa cam.»
«Certo, sì, a domani.»
«Ti voglio bene.»
«Anch’io, Ai. Buonanotte.»
«Buonanotte.»

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