Un padre e un marito a cui strappano una famiglia e poi un’altra. Un uomo alla ricerca dei propri figli e della propria identità, un uomo solo contro leggi che dovrebbero proteggere e invece seminano violenza. Una pagina nera della storia europea incastonata in una storia di due toni più scura e più fatale. L’eliminazione sistematica, subdola e silenziosa di un’intera comunità di girovaghi adombrata da uno sterminio più imponente. Un genocidio in un genocidio, una vicenda di dolori a scatole cinesi.
Giorgio Diritti (regista, come molti altri suoi colleghi, che dà artisticamente molto più di quanto riceva in termini di attenzioni mediatiche e meritocratiche) dirige un film costruito come un Tetris di ferite, in cui gli eventi sono tormenti come mattoncini che non si incastrano mai ed erigono, intorno ad un uomo simbolo di una intera etnia, un muro di solitudine e oblio che lo condanna a un’esistenza dannata da uomo morto che cammina.
Franz Rogowski restituisce tutto questo crescendo in una di quelle sue interpretazioni a cui ci ha piacevolmente abituati (Passages, Unidine, Große Freiheite, solo per citare alcuni tra i suoi ultimi film) e che non hanno mai nulla al di sotto del prodigioso.