Duecento candeline

in ita •  6 years ago  (edited)

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Carissimi tutti… ben ritrovati. Se c’è una cosa che, ahimè, nella vita si impara fin troppo presto è che di rado ci è concesso essere dove vorremmo essere a fare ciò che ci piacerebbe fare… Questo per dire che, ultimamente, mi sono assentato più di quanto avrei voluto da questo piccolo-grande (immenso, in verità) “laboratorio del comunicare”, ovvero dal mio modesto “magazine del Fantastico”.

Nel frattempo, d’altro canto, vedo che la voce della Tenebra e dell’Impossible non è rimasta inascoltata durante la mia assenza. Grazie, prima di tutto, a @ilnegro per la sua incursione-contest nel regno dell’Ucronia (un cosmo nel quale ci inoltreremo tra qualche tempo), e grazie soprattutto a @crism1 per il suo post su Dracula – a lui vanno anche i miei complimenti per il coraggio: non è da tutti prendere così di petto un tale gigante dell’orrido vittoriano.

Di vampiri, in ogni caso, si parlerà senza dubbio nei prossimi “capitoli” di Altrimondi, per ora però preferisco prendere al volo proprio l’idea del “gigante”, dell’opera imprescindibile, del classico assoluto, per fare quattro chiacchiere con voi intorno a due importantissime ricorrenze. Due anniversari che – celebrati, a dire il vero, in modo piuttosto tiepido e timido dai mass media – cadono proprio in questo 2018…

PS – Tutte le immagini di questo post sono di mia esclusiva proprietà.

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Era una notte buia e tempestosa… O forse no?
Servirebbe una di quelle affascinanti ricerche di archeoclimatologia che piacciono tanto a Piero Angela per confermare che quelle giornate estive trascorse a Villa Diodati, sul lago di Ginevra, furono davvero piovose come dice la leggenda. Giornate – e notti – passate alla storia (quella della letteratura, senza dubbio) per via di una raccolta di suggestive Ghost Story tedesche lette, si presume, alla luce del caminetto. Passate alla storia soprattutto grazie alla scommessa, l’innocente scommessa che proprio da quei fantasmi della mente e dell’immaginazione prese forma… L’anno è il 1816 e gli amici che si scaldano alla fiamma sono già personaggi celebri: in primo luogo, ecco i due protagonisti del tardo Romanticismo inglese Percy Bysshe Shelley e George Gordon Byron, poi John William Polidori – che di Byron è il dottore personale – quindi la giovane Claire Clairmont e la sua sorellastra, ovvero la futura sposa di Shelley, l’ancor più giovane… Mary. Tutti loro sono stati ritratti da quello che fu a sua volta il protagonista della stagione neoromantica (o neobarocca) del cinema british – il lisergico Ken Russell – che in Gothic (1986) diede una rappresentazione quanto mai vitalistica, sanguigna e onirica di quella “vacanza”: una cupa e orgiastica danza delle streghe, brutale-passionale coitus da cui non potevano che nascere mostri.

Il più celebre di questi perturbanti rampolli – che comunque non è il solo – non ha neppure un nome. Tra gli specialisti del fanta-gotico è diffuso il pregiudizio secondo cui la maggior parte delle persone tenderebbe a confonderlo col suo creatore, ma io sono un inguaribile ottimista e credo che voi tutti sappiate bene che la Creatura di Frankenstein non è Frankenstein… Perché, naturalmente, è di tale prodigio che stiamo parlando. La prima avventura di questo straordinario villain (ed è il motivo per cui la celebriamo qui) viene pubblicata nel 1818 e nell’arco degli ultimi duecento anni non ha mai smesso, per quanto ne so, di essere ristampata. Su un’enciclopedia made in Britain che consultai molti anni fa (purtroppo non ricordo quale fosse) era descritta come un second rate work, un lavoro mediocre. Una valutazione che allora mi parve piuttosto ingenerosa per il Frankenstein or the Modern Prometheus di Mary Wollstonecraft Shelley e che ora mi sembra semplicemente inaccettabile. Cerchiamo di capirci: fatta eccezione per un paio di adattamenti, come il Mary Shelley’s Frankenstein di Kenneth Branagh (1994) o la versione per il piccolo schermo di Kevin Connor (2004) – che in ogni caso lo tradiscono parzialmente – il romanzo non somiglia quasi per niente alle grandguignolesche e macabro-carnali rappresentazioni a cui il cinema ci ha abituato, e in più non è certo una lettura scoppiettante e adrenalinica come potrebbe aspettarsi il Lettore Fedele di Stephen King. Quello di Mary, a dirla tutta, è in primo luogo un Philosophical Essay, un trattato in forma narrativa che indaga il costituirsi della coscienza morale, i suoi limiti, le contraddizioni che incontra e (non necessariamente) risolve lungo il cammino. L’essere – Being, Creature, Wretch o Demon, sono i termini che l’autrice impiega più frequentemente per definirlo – è una mente pura, che contiene tutte le irrisolte ambiguità di una matrice ancora inerte. Essa viene respinta, confinata nella più disperata emarginazione dall’ostilità sociale, e qui si corrompe e distorce fino ad assumere un profilo mostruoso, quasi fosse un moderno serial killer.

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La sfida di cui si parlava poco sopra era quella di scrivere una storia “del terrore”, e la sera in cui fu lanciata, per essere ancora più precisi, era quella del 15 o 16 giugno – il che mette un altro anniversario dentro il nostro anniversario. Pare sia stato Byron a condurre i giochi, con il suo ben noto, esuberante carattere, e pare che fosse suo desiderio dar forma con quell’iniziativa a un componimento poetico dal sapore macabro-vampirico, qualcosa che riecheggiasse il Christabel di Coleridge (pubblicato proprio quell’anno), il Die Braut von Corinth di Goethe (1797) o il Giaur che lui stesso aveva firmato nel 1813… L’invito, però, fu raccolto solo da Polidori (che comunque lo sviluppò secondo la propria personalissima inclinazione – come vedremo), perché l’estroso Percy Bysshe si smarrì lungo la strada e Mary… be’, lei aveva in mente qualcosa di diverso. Aveva ascoltato con attenzione le lunghe conversazioni tra il futuro marito e Byron sui “principi della vita” e sui curiosi esperimenti che lo zoologo Erasmus Darwin (nonno di Charles) aveva condotto su alcuni vermi miracolosamente “risorti” dopo l’apparente decesso, e pare che ne fosse rimasta impressionata. Quanto alle prodigiose facoltà rianimanti dell’elettricità – che all’epoca erano sponsorizzate dal movimento galvanista – sembrerebbe che la scrittrice abbia prestato loro un’attenzione alquanto ondivaga, mentre ad esserne ossessionato era soprattutto l’altro Shelley, quello che portava i pantaloni… In ogni caso, in una di quelle notti del giugno 1816, Mary era già cotta a puntino, abbastanza agitata da intravedere, come in un'allucinazione nel dormiveglia, un “pallido studioso di arti proibite, inginocchiato accanto alla cosa che aveva assemblato. L'orribile fantasma di un uomo disteso, che poi, grazie all’azione di un potente dispositivo, mostrava segni di vita, e si agitava con movenze inquiete, solo in parte vitali…”.

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Questa visione verrà pubblicata varie volte – nel 1818, nel 1823 e nel 1831 (e si ipotizza una nuova ristampa nel ’38) – nel corso della vita di Mary, ogni volta con qualche piccolo rimaneggiamento, ma nella sua sostanza rimane immutata. Victor Frankenstein – l’infervorato e illuminista studente ginevrino – sfida la Morte e dalla Morte viene beffato in una notte di novembre: “le sue membra erano proporzionate, e avevo scelto le sue sembianze mirando alla bellezza. Bellezza! Gran Dio! La sua pelle gialla a malapena copriva la trama dei muscoli e delle arterie; i suoi capelli erano fluenti e di un nero lucente, i denti di un bianco perlaceo, ma questi pregi facevano solo un più orrido contrasto con gli occhi acquosi che sembravano quasi dello stesso colore delle orbite biancastre in cui erano infossati, con la sua pelle corrugata e le labbra nere e tirate…”. A metà tra Marilyn Manson, nei suoi momenti più pittoreschi, e uno zombie pronto ad addentarci, ecco il mostro. Il germe seminale, la prima radice, la cellula staminale che darà forma a una così vasta, grottesca galleria di riproduzioni infedeli e sgangherate, portate al cinema da geni della celluloide così come da mediocri mestieranti, dall’iconico Boris Karloff di James Whale (1931), all’impensabile Aaron Eckhart di I, Frankenstein (Stuart Beattie, 2014)… Un viaggio lungo e appassionante al quale probabilmente torneremo ad unirci in qualche occasione futura, ma che per il momento ci limitiamo a salutare affettuosamente.
Buon duecentesimo compleanno, Frankie!

Post Scriptum
E il secondo anniversario di cui si parlava all’inizio? Non c’è fretta… Ci risentiamo a breve.

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Sarò probabilmente poco colta, in questo universo complesso di letteratura e cinema, ma se penso a un riadattamento per me clamoroso e geniale dell'opera...beh, mi viene in mente, senza dubbio alcuno, Frankenstein Junior, di Mel Brooks, non è orrorifico come dovrebbe, forse, ma ha del carattere e ha lasciato delle icone nella storia, last but not least il personaggio sgangherato, inquietante ma adorabile insieme, interpretato da Feldman: Igor (Aigor). In realtà a me piace molto ridere, per questo adoro questo film e tra tutti i riadattamenti di Frankenstein che conosca è quello che mi è più affine :)

Cara @nawamy, direi che in materia di "giganti" (ovvero grandi classici), non ti manca nulla :-) Io appartengo a quella generazione di estimatori melbrooksiani che è cresciuta citando a memoria il "sedadavo", il cervello "A-B Normal" e il "morto fresco di giornata"... per cui non ho difficoltà a capire il tuo entusiasmo. Far Paura è difficile, ma far ridere è privilegio del vero genio.