#PENSIERISPARSI: DEDICATO A PPP. LA POÉSIE ENGAGÉE IN PIER PAOLO PASOLINI

in literature •  7 years ago 

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Il pensiero sparso di oggi è dedicato a lui, Pierpaolo Pasolini, PPP. Sono nata più di un decennio dopo la sua triste, violenta e assurda scomparsa, esattamente 42 anni fa. Eppure è una icona, figura, personaggio, ma soprattutto una persona che mi ha accompagnata moltissimo nella vita.

L’ho letto, studiato, divorato, sviscerato, guardato i suoi film, goduto dei suoi documentari, mi sono persa nelle sue poesia che mi hanno sempre aperto un punto di vista sulla società di oggi, sul mondo che mi circonda. Succede raramente di immedesimarsi così profondamente in parole e pensieri di una persona vissuta così tanto tempo prima di te.

Succede raramente che un poeta, scrittore, giornalista, regista, attore, critico e filosofo ti accompagni e ti entri nei pensieri come se lo avessi davvero conosciuto, apprezzato, scambiato idee e punti di vista e provato un sincero affetto per lui.

Spesso le cose cambiano, le idee restano ma la realtà si modifica.
Invece ciò che lui pensava e diceva oggi, più che mai, è attuale. Basta cambiare nomi e cognomi, coordinate geografiche (o forse no), per ritrovare le stesse situazioni che raccontava e cercava di denunciare. E invece no. È stato messo da parte, sottovalutato o, forse peggio, non ritenuto importante. E oggi invece tutti lo ricordano. Perché credo abbia lasciato un segno che non può essere messo da parte e non considerato.

Oggi lo ricordo così, con qualcosa che ho scritto tempo fa, ma che nasce da una profonda e totale immersione nel suo mondo, durata diversi anni.

È un articolo apparso su una rivista letteraria per cui scrivo, Lab/Or.

Spero di contribuire a intravedere lo spiraglio dell’immensa persona che era.

Ciao PPP.

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La creatività artistica di Pasolini ha spaziato in tutti i campi della narrazione, dalla pagina scritta alle immagini dello schermo cinematografico, passando per prosa, rime, dialetti (friulano e romano), lingua ‘pura’ e lingua borghese.

La parola poetica pasoliniana è una parola ricca perché creativa, individuale, viva; sostanziale e insieme variabile.

L’ispirazione di Pasolini nasceva dal contatto con la realtà quotidiana, che cercava di osservare con occhio critico e distaccato, applicando lo stesso principio anche alle cose, alle persone, alle idee, e ai luoghi che frequentava.
Pasolini era un poeta-critico: un oppositore della società dei consumi e dell’omologazione a tutti i costi, poiché la sua etica gli impediva di adeguarsi agli sviluppi che erano in corso nella società italiana del boom economico, di cui l’autore osservò gli avvenimenti e i diversi aspetti con la massima attenzione e interesse, per scoprire come funzionasse il meccanismo che aveva prodotto quel mondo al quale sentiva di non appartenere.

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Pasolini nacque a Bologna il 5 marzo del 1922, e per tutta l’infanzia e l’adolescenza seguì il padre, ufficiale di fanteria, nei suoi spostamenti, trasferendosi da una città all’altra del Nord Italia e trascorrendo le estati a Casarsa, in Friuli, il paese natio della madre. Fu proprio l’ambiente rurale e naturale di Casarsa ad avvicinare alla poesia il giovane Pasolini.

Io sono nato a Bologna […] qui ho trascorso gli anni della mia formazione, qui sono diventato antifascista per aver letto a 16 anni una poesia di Rimbaud. Qui ho scritto le mie prime poesie in dialetto friulano (cosa non ammessa dal fascismo). […] E in realtà il friulano non lo sapevo. Lo ricordavo parola per parola mentre inventavo quelle mie prime poesie. L’ho imparato dopo, quando nel ’43, ho dovuto ‘sfollare’ a Casarsa. Dove ho vissuto prima l’esistenza reale dei parlanti, cioè la vita contadina, poi la Resistenza e infine le lotte politiche dei braccianti contro il latifondo. In Friuli ho imparato un mondo contadino cattolico […] e poi sono diventato, coi braccianti, comunista.
(P. P. Pasolini, Cani, febbraio 1975, in Scritti Corsari, Milano, Garzanti 2008, pp. 117-118)

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Le Poesie a Casarsa – una raccolta di testi scritti tra il 1941 e il 1942 – rappresentano l’esordio poetico del ventenne Pasolini.

L’ispirazione ebbe – e lo confermerà lo stesso poeta trent’anni dopo – un’origine essenzialmente uditiva, o meglio ancora una matrice acustica, sonora. Tra i campi risuonò una parola pronunciata da un giovane contadino: «rosada» (rugiada). L’atto puramente orale di un parlante venne colto nella sua potenzialità linguistica e si trasformò in poesia:

«Scrissi subito dei versi, in quella parlata friulana della destra del Tagliamento, che fino a quel momento era stata solo un insieme di suoni: cominciai per prima cosa col rendere grafica la parola rosada»
(P. P. Pasolini, Empirismo eretico, Milano, Garzanti 1972, pp. 62-63;).

L’esperienza ‘sensoriale’ giovanile istillò nell’animo del poeta la necessità di trovare nella lingua dialettale il proprio strumento espressivo, così come le successive fasi della sua vita stimoleranno altri istinti creativi e artistici:

Pasolini osserva il mondo che lo circonda, lo interiorizza e traspone tutto ciò che ‘ascolta’ nella sua poesia, che non è soltanto espressione rimata e ritmata delle emozioni e della propria coscienza, ma è anche un canale comunicativo per descrivere la realtà italiana nel suo transito da società prettamente contadina a società industriale e capitalistica.

Sensibilità e attenzione per il mondo circostante che trovano, nella terra materna, il modo di esprimersi tramite la poesia dialettale, rendendo già ben visibile la vena di provocazione che attraverserà l’intera produzione creativa di Pasolini.

La provocazione insita nella natura dell’artista è, infatti, una conseguenza del sentimento di odio/amore per la realtà di quegli anni. Un significativo esempio di tale sentimento ambivalente è da ritrovare nell’utilizzo della curiosa giustapposizione linguistica ab joi in una lirica composta un ventennio più tardi, intitolata Vittoria (1964), in cui il poeta rimanda la memoria agli anni della sua iniziazione poetica nel mondo rurale friulano. La preposizione ab, che in lingua provenzale significa con, indica l’unione e l’avvicinamento, mentre la stessa preposizione in latino assume sfumature opposte, sottolineando le idee dell’allontanamento e della separazione. Così ab joi è insieme gioia e distacco da essa, essere vicini alla vita, ed allo stesso tempo provare un sentimento di nostalgia nei confronti di quell’esistenza che dovrebbe essere vissuta e invece si guarda soltanto passare davanti agli occhi:

Il vecchio poeta è ‘ab joi’
che parla, come lauzeta o storno»
(P. P. Pasolini, Bestemmia, Milano 1993, Garzanti, p. 124.)

Ma la componente di provocazione e rottura delle prime poesie pasoliniane non è certo da ritrovare in mere scelte stilistiche, giacché lo stesso uso del dialetto, in un paese guidato da un regime fascista che osteggiava le ‘lingue barbare’, veniva considerato come trasgressivo.

Il fascismo infatti non ammetteva che in Italia ci fossero dei particolarismi linguistici locali e, tramite l’intervento statale, aveva promosso la diffusione dell’italiano come lingua nazionale.

A questi primordi di omologazione linguistica decisa dall’alto, Pasolini oppone una rinascita delle lingue regionali, affidando al dialetto friulano la propria ispirazione poetica:

Il friulano di Casarsa si è prestato quietamente a farsi tramutare in linguaggio poetico, che da principio era assolutamente divelto da ogni abitudine di scrittura dialettale […]. Per me era semplicemente una lingua antichissima eppure del tutto vergine […]. Così la lingua stessa, la pura parlata dei Casarsesi, poté divenire linguaggio poetico senza tempo, senza luogo […]. Per noi ormai lo scrivere in friulano è un fortunato mezzo per fissare ciò che i simbolisti e i musicisti dell’Ottocento hanno tanto ricercato […] cioè una melodia infinita.
(da Il Stroligut N.2, Casarsa, aprile 1946, pp.14-15, ora in Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori 1999, pp. 159-161)

La melodia dell’universo simbolico friulano riesce a trovare uno spazio d’espressione in un dialetto che è insieme passato e presente, paesaggio simbolico e paesaggio poetico, che coincidono sin dalla Dedica d’apertura della raccolta, autentica dichiarazione d’amore al paese:

«Fontane d’aghe dal mè país. /
A no è aghe pí frès-cie che tal mè país. /
Fontana di rustic amòur»

(«Fontana d’acqua del mio paese. /
Non c’è acqua più fresca che nel mio paese. /
Fontana di rustico amore».
P. P. Pasolini, Poesie a Casarsa, Bologna, Libreria Antiquaria Marco Landi 1942, p. 9)

Il friulano è una lingua, in un certo senso, pronta per la poesia, perché letterariamente vergine in quanto priva di tradizione scritta: la scelta del dialetto si configura così come un’operazione linguistica carica di significati, soprattutto perché, nella redazione delle poesie, Pasolini affianca sempre la versione in lingua italiana, portando alla creazione di un bilinguismo che pone il dialetto in antitesi con la lingua ufficiale del fascismo.

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La poesia dialettale di Pasolini diventa così, nelle raccolte successive, poésie engagée, una poesia impegnata che vuole evocare non solo i suoni di una lingua poetica nuova a cui la letteratura conferisce dignità, ma anche alcuni episodi tragici della storia italiana, come la disfatta di Caporetto durante la prima guerra mondiale, o la violenza e la crudeltà dell’occupazione tedesca del 1944 e della guerra partigiana. Infatti, durante i sette anni che intercorrono tra la prima pubblicazione di Poesie a Casarsa nel 1942 e la successiva raccolta poetica, Dov’è la mia patria, del 1949, la vita di Pasolini sarà densa di avvenimenti, sia per quanto riguarda la sua produzione letteraria sia per quanto riguarda l’attivismo politico. La morte del fratello Guido durante la guerra partigiana, in seguito a lotte intestine allo stesso movimento antifascista, segnerà profondamente l’attività di Pasolini, e la successiva:

«adesione al Pci rappresenta per il giovane poeta un atto di profondo coraggio: intendeva con ciò sacrificare il profondo dolore inferto a sé e alla propria famiglia a un ideale sociale da condividere in pieno con quello stesso Pc friulano che aveva ispirato politicamente gli assassini del fratello»

Grazie alla militanza politica, e grazie a quegli ideali nel quale egli stesso si riconosceva, Pasolini comincia ad inserire le proprie riflessioni intellettuali in un ambito più vasto rispetto all’individualismo e alla riflessione interiore che avevano dominato il periodo poetico casarsese, confrontandosi con una dimensione collettiva, sociale e popolare, prima sconosciuta.

Tale identificazione negli ideali comunisti è presente in maniera latente sin dall’inizio nella poetica pasoliniana, anche quando la sua attenzione è focalizzata sui soggetti rurali. Il mondo contadino che Pasolini conosce in Friuli appare, infatti, come vero depositario di ideali positivi, riconoscibili nei valori tradizionali professati dalla Chiesa, quali, ad esempio, la famiglia, la semplicità, il sacrificio, il risparmio, la moralità. È un mondo pre-borghese, il mondo della classe dominata, che Pasolini considera come un

«universo transnazionale: che non riconosce le nazioni. […] È l’avanzo di una civiltà precedente […] in cui gli uomini vivevano come consumatori di beni estremamente necessari. Ed era questo, forse, che rendeva estremamente necessaria la loro povera e precaria esistenza»
(P. P. Pasolini, Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino, in Scritti corsari, pp. 52-53)

La semplicità della vita di campagna ha significato, nell’esperienza dell’artista, la certezza dell’esistenza di una continuità tra la realtà contemporanea e le origini del mondo umano, valorizzandone ogni minimo gesto, ogni parola.

«Rappresentava, ai miei occhi, lo spettacolo di un mondo perfetto»
(P. P. Pasolini, Lettere Luterane, Torino, Einaudi 2003, p. 47)

In questo universo di culture «particolari e reali» (P. P. Pasolini, In che senso parlare di una sconfitta del PCI al ‘referendum’, in Scritti Corsari, p.74) è presente anche una coscienza di classe, un comunismo di valori che va oltre un ideale politico di cui si è culturalmente coscienti, come ci viene raccontato nel primo esperimento narrativo di Pasolini, Il sogno di una cosa, composto tra il 1949 e il 1950. È qui che, accanto alla descrizione poetica della vita e del paesaggio friulano, comincia a costruirsi un romanzo che diventa anello di congiunzione tra la produzione poetica degli anni casarsesi e quella impegnata degli anni romani successivi.

È infatti un romanzo politico, in cui si cominciano a delineare i temi sociali che caratterizzeranno la produzione pasoliniana degli anni Cinquanta, calati però in un contesto che è ancora rurale. Il testo, infatti, racconta della lotta dei braccianti friulani contro gli agrari e dell’appassionata adesione dei giovani protagonisti ad un comunismo vissuto con ingenuo entusiasmo, lo stesso entusiasmo che quei valori scatenarono nel giovane Pasolini nel momento in cui prese coscienza della propria vocazione politica e sociale, che poi percorrerà l’intera sua produzione letteraria. L’attivismo politico svela agli occhi del poeta nuove voci, nuovi personaggi che affollano la vita popolare dell’Italia del dopoguerra, personaggi non più collegati soltanto al lento scorrere della vita di campagna, ma inseriti in un contesto industriale, proletario, e sopratutto, come ribadirà più volte lo stesso Pasolini nei suoi scritti, sottoproletario.

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I sottoproletari: […] «i più poveri tra i poveri», sono «i parlanti per definizione di lingue autonome, che solo essi conoscevano nello spirito ed erano in grado di ricreare, attraverso una continua rigenerazione (senza infrazioni) del codice. La loro vita si svolgeva all’interno di queste loro culture […] ed era assolutamente libera. […] Il povero non poteva vedere le limitazioni che un’altra cultura gli imponeva per la semplice ragione che non conosceva quest’altra cultura. […] I sottoproletari si erano conservati (durante il periodo del fascismo e della guerra) perfettamente estranei alla storia borghese»
(P. P. Pasolini, Il sogno di una cosa, Milano, Garzanti 1962, p. 163).

In questo decennio di transito la poetica pasoliniana trova nell’espressione realistica delle proprie idee il modo di affrontare quella polemica sociale che viene sentita con trasporto sempre maggiore dall’autore, soprattutto dopo il suo trasferimento a Roma nel 1950, dove si trovò a contatto, fisicamente e linguisticamente, con un ambiente completamente diverso dall’idilliaco paesaggio rurale: il mondo sottoproletario delle borgate romane, che gli permise di produrre i suoi lavori più impegnati socialmente e politicamente. Qui la violenza, la miseria, gli espedienti per sopravvivere degli emarginati, dei dimenticati e dei diseredati divengono il nucleo centrale sia dei romanzi che dei componimenti poetici di questo periodo, facendo di Pasolini un poeta civile a tutti gli effetti, soprattutto dopo la pubblicazione, nel 1957, della raccolta di poemetti Le ceneri di Gramsci:

«Il poemetto si apre con un inizio lento, con ritmo cadenzato. Vi è contrasto tra il laico cimitero in cui è sepolto Gramsci e il lontano battere delle incudini dal quartiere popolare di Testaccio, non lontano da lì, ma già un altro mondo, un’altra vita. Il Gramsci di quel cimitero non è quello della prigionia, della lotta, ‘non padre, ma umile fratello’, quindi indifeso e solitario»
(dalla Nota introduttiva di P. P. Pasolini, in Le ceneri di Gramsci, Milano, Garzanti 1957, p. 7).

Questo componimento descrive la lunga ed emozionante meditazione del poeta allorquando si reca alla tomba del filosofo e militante operaio, co-fondatore del Partito Comunista Italiano, martire della resistenza, che nell’elaborazione intellettuale di Pasolini va a sovrapporsi all’immagine di Guido, il fratello caduto tragicamente durante la lotta partigiana. Lo sfondo contro cui si delinea il monologo del poeta è quello delle borgate romane.

Roma è infatti divenuta la «nuova Casarsa» (P. P. Pasolini, Lettera a Silvana Ottieri, in Lettere, I, a cura di Nico Naldini, Torino, Einaudi 1986, p. 390), il nuovo, amato universo simbolico nel quale Pasolini trova gli strumenti adatti ad esprimere la propria maturità artistica e politica.

Al panorama rurale della campagna friulana si sostituisce infine il ben più ampio panorama nazionale nel poemetto L’umile Italia, strutturato sull’opposizione tra paesaggio settentrionale e paesaggio meridionale, tra i dolci cieli padani di ieri e le assolate lande della campagna romana.

Un’opposizione che mette di fronte due ambienti letterari e due epoche della vita al contempo:

È necessità il capire
e il fare: il credersi volti
al meglio, presi da un ardire
sacrilego a scordare i morti,
a non concedersi respiro
dietro il rinnovarsi del tempo.
Eppure qualche cosa è più
forte del nostro ardore empio
a maturare nella mente
a fare della natura virtù
E ci trascina indietro.
(P. P. Pasolini, L’umile Italia, in Le ceneri di Gramsci, p. 55).

Un mio articolo apparso sulla rivista Lab/Or – Letteratura e dintorni n.1

Le foto sono state scattate da me. La copertina della raccolta di poesie, il murales e la foto scattata nelle borgate romane sono state prese dal web

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Ottimo post! Purtroppo i visionari sono sempre avanti loro tempo, e sono pochissima gente che gli capiscono. Grazie per condividere tanta informazione su di lui.

Dal tuo post si legge tutta la tua stima verso Pasolini! Bel post!

un grande, unico nella fattispecie. Era semplicemente decenni avanti a tutto e tutti nella sua epoca.

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Un lavorone...!! Complimenti!