Liza Minelli cantava:
"New York, New York
Start spreading the news
You're leaving today (tell him friend)
I want to be a part of it, New York, New York
Your vagabond shoes, they are longing to stray
And steps around the heart of it, New York, New York
I wanna wake up in a city, that doesn't sleep
And find your king of the hill, top of the heap"
Questa canzone mi risuona nelle orecchie mentre passeggio per le strade di New York, alternandosi al motivo di Duke Ellington.
New York - Greenwich Village
Passeggio davanti a una palazzina dai mattoni rossi con la scala antincendio nera, finestre rettangolari dagli infissi bianchi, ed ecco Audrey che canta "Moon River" con occhi sognanti appollaiata sul davanzale del suo appartamento.
Passeggio lungo l'elegante 5th Avenue e ricasco di botto in una scena di "Breakfast at Tiffany's". Su un panchina di Central Park vedo Marco Stanley "M.S." Fogg che si interroga sulla vita tra le pagine di "Moon Palace" e guardandomi attorno tra le caotiche vie del centro ritrovo quella città sfavillante raccontata da Fitgerald ne "The great Gatsby".
New York è parta integrante del mio immaginario costruito e ricevuto, una parte di una storia che è ricca di aneddoti, sfaccettature, affascinante e ammaliante, nostalgica e viva.
Questa città l'ho vissuta due volte.
La prima volta era il 1999. Ero adolescente ed era tutto grandioso, nuovo, caotico, vivo, senza timore di nulla, una città senza paura, che non dorme mai. New York era già nel mio immaginario: le torri gemelle, la statua della libertà, Central Park, i luoghi del mio telefilm preferito, Friends, gli hotel dalle suites enormi, persone di ogni colore e lingua che affollavano la metro.
Ricordo nitidamente la sensazione di vertigine acuta che ho provato nell'affacciarmi dalla cima dei grattacieli. Una parete trasparente a strapiombo sul Financial District. Papà che si stende al tramonto sulla panchina in cima a una delle torri a osservare le nuvole.
L'eleganza dell'empire state building e la macchinetta per ricavare delle medagliette con un incisione sulle monete da 5 penny. Io e mia sorella che non ne perdevamo una. Ricordo il Natural History Museum e il suo maestoso ingresso, le sale enormi, gli scheletri di dinosauro mastodontici. E poi passeggiare tra le foglie verdi del parco, vicino al laghetto, a mangiare un hot dog.
Era una città incredibile.
Lo è ancora. La seconda volta l'ho vissuta quest'anno. Post 11/09. Sempre viva, sempre caotica, vivace, rumorosa e musicale, sorridente e veloce. Ritrovare dopo tanto una di quelle persone che faranno sempre parte della mia vita. Un'amica frutto di questo incontro di culture, generazione dopo generazione.
Le strade di Soho, Little Italy e china Town affollate di turisti, guide, cantanti e musicisti, artisti di strada. Ristoranti, bar, prodotti italiani (o almeno lo erano), svoltare l'angolo e trovarsi a Pechino, con profumi, volti, abitudini e usanze che vengono dall'altra parte del mondo.
Soho/Little Italy/ChinaTown
Sentire, raccontare e Immaginare le vite di chi arrivava qui carico di sogni e speranze e senza conoscere una parola di quella strana lingua che parlano qui. Rivivere le tappe degli emigranti europei, italiani, passeggiando su Ellis Island, guardando la statua della libertà avvicinarsi man mano dal mare mentre il traghetto arriva lì, sbarcare poi e raggiungere questo quartiere uscito da un vicolo di una città che potrebbe tranquillamente essere Napoli o Genova. Solo che è nel mezzo di una città completamente diversa.
E poi passeggiare nel Greenwich Village e girovagare tra negozietti e bancarelle, palazzi di mattoni rossi e parchetti verdi e puliti. Incrociare persone giovani e anziane che giocano a carte in un parchetto o praticano sincronicamente thai-chi. Assaggiare un raviolo fritto delizioso. Bere un espresso come se fossi in Italia.
Da ragazzina ero già rimasta colpita da questo incrocio di vite. Oggi tutto acquista ancora un nuovo senso, nuove similitudini, nuovi corsi e ricorsi storici.
Un migrante che giunge in una terra nuova e sconosciuta solo per provare a vivere un pochino meglio. Meglio di niente. La mancanza di casa che spinge a costruirne una simile attorno a sé.
L'integrazione a fatica che va a braccetto con la chiusura in un mondo parallelo che conserva lingua e usanze del luogo di provenienza. Decenni dopo, ancora lì, integrati eppure con una memoria di quello che era stato.
Oggi è l'11 settembre 2017.
Sono passati 16 anni. Ricordo quel pomeriggio come se fosse ieri. i programmi televisivi che si interrompono improvvisamente interrompendo bruscamente un pigro pomeriggio di fine estate.
Ero stata lì solo due anni prima. Una sensazione di impotenza e terrore è aleggiato per giorni in casa. Poi pian piano, è passata.
Vedendo quel vuoto, qualche settimana fa, ho ricordato nitidamente quella sensazione. Quella emozione forte e violenta come uno schiaffo in pieno viso. Poi il silenzio. La calma. La riflessione. Persone radunate lì in silenzio, come in un luogo sacro.
Fiori poggiati per salutare chi era lì in quelle ore.
Emozione che si tocca con mano.
Lo scroscio dell'acqua a interrompere il flusso dei pensieri, o ad accompagnarli.
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Ammetto di aver provato una fitta di invidia a leggere questo post!
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bel viaggetto di fantasia, grazie!
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Il mio sogno è andarci ❤️
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Bello.
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Molto bello il post! Complimenti! Il graffiti di David Bowie è stato fato di un compaesano mio che si chiama Kobra.
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